Penale

Consulta, no al riconoscimento della “pena naturale” all’interno dell’ordinamento penale

Commento alla sentenza della Corte Costituzionale del 25 marzo 2024, n. 48

Il concetto di pena naturale

Sovente i mezzi di informazione riportano casi di decessi avvenuti per colpa di un soggetto ai danni di un prossimo congiunto.

La “ pena naturale ” rappresenta quel male fisico o morale che un soggetto patisce - secondo il canone dell’id quod plerumque accidit - in conseguenza di una sua azione od omissione involontaria avverso un prossimo congiunto, di cui ne ha causato la morte.

A tale sofferenza, successivamente, si somma la sanzione penale irrogata dal giudice all’esito del giudizio, una volta provata la penale responsabilità dell’agente.

L’ordinanza di rimessione del Tribunale di Firenze alla Corte Costituzionale

Il Tribunale di Firenze era chiamato a pronunciarsi sulla responsabilità di un soggetto, imputato del reato di cui all’art. 589 c.1 e c.2 c.p., poiché in quanto datore di lavoro, omettendo le cautele previste dal d.lvo. 81/2008, cagionava la morte del proprio nipote, suo dipendente.

Il giudice dubitava della legittimità costituzionale dell’art. 529 c.p.p. nella parte in cui non prevede che l’Autorità giudicante possa emettere sentenza di non doversi procedere, poiché l’azione penale non doveva essere iniziata o non deve essere proseguita, allorquando l’agente, che ha cagionato colposamente la morte di un prossimo congiunto, abbia già patito un dolore proporzionato alla gravità del reato commesso.

Si riteneva, di conseguenza, contrario al dettato costituzionale il cumulo derivante dall’applicazione della pena prevista dal legislatore per il reato compiuto e la poena naturalis . Ciò posto, esclusa la possibilità di un’interpretazione costituzionalmente orientata della norma censurata, veniva sollevata la questione di legittimità costituzionale, con ordinanza del 20 febbraio 2023.

L’Autorità rimettente, dopo aver dato atto in un’ottica comparatistica della sussistenza in altri ordinamenti - tedesco, svedese, argentino - di istituti che riconoscono la possibilità per il giudice di non infliggere la pena prevista dal codice penale qualora essa concorra con la pena naturale oppure, quantomeno, di modulare la pena stabilita dalla norma incriminatrice in virtù della pena naturale, esponeva le ragioni per cui riteneva incompatibile con la Carta costituzionale il mancato riconoscimento della poena naturalis.

1) Il mancato rispetto del principio di proporzionalità della pena. “Una pena non proporzionata alla gravità del fatto (e non percepita come tale dal condannato) si risolve in un ostacolo alla sua funzione rieducativa” . Nel solco della consolidata giurisprudenza della Corte Costituzionale circa la proporzionalità della pena, il giudice a quo riteneva che anche la pena naturale fosse connotata da un tasso di afflittività, al pari della pena prevista dalla norma incriminatrice. Il cumulo, dunque, nascente dall’applicazione congiunta della sanzione penale e della poena naturalis condurrebbe ad una risposta sanzionatoria sproporzionata ed ostativa alla piena rieducazione del condannato.

2) La violazione degli articoli 3 e 13 Cost. con riguardo alle funzioni della sanzione penale. Con riguardo alla funzione general-preventiva, nel senso che la previsione della pena ad opera della norma incriminatrice è “ rivolta con finalità dissuasiva ai consociati ” , essa non risulterebbe scalfita allorché il giudice si astenga dall’applicare al reo la sanzione penale stabilita dal legislatore, giacché l’agente ha già patito una sofferenza per aver causato la morte di un suo prossimo congiunto.

Per ciò che concerne, invece, la funzione special-preventiva, la sommatoria generata dalla pena prevista dalla norma incriminatrice e dalla pena naturale si risolverebbe in un “ crudele accanimento dello Stato ” nei confronti dell’autore del reato, senza che si raggiunga una qualche finalità rieducativa dello stesso.

3) La violazione del divieto di trattamenti contrari al senso di umanità ex art. 27 c.3 Cost. “Il trattamento non contrario al senso di umanità deve caratterizzare oggettivamente il contenuto del singolo tipo di pena, indipendentemente dal tipo di reato per cui un certo tipo di pena viene specificamente comminato” . Anche sotto tale aspetto, l’Autorità rimettente si inserisce nel solco tracciato dalla giurisprudenza della Consulta, questa volta in ordine al principio di non contrarietà della pena al senso di umanità. Perveniva così alla conclusione per cui il cumulo tra la poena naturalis, proporzionata alla gravità del reato commesso, e la pena irrogata dal giudice, apparirebbe opposto al senso di umanità della sanzione penale.

Orbene, una volta enunciate le violazioni del testo costituzionale generate dal mancato riconoscimento del valore della pena naturale, il giudice a quo individuava quale norma oggetto di censura l’art. 529 c.p.p. Quest’ultimo riguarda le sentenze di non doversi procedere nei casi in cui l’azione penale non doveva essere iniziata o non deve essere proseguita. Veniva richiesta, pertanto, alla Corte Costituzionale una pronuncia additiva, ossia la dichiarazione di incostituzionalità dell’art. 529 c.p.p nella parte in cui non prevede che il giudice possa pronunciare sentenza di non doversi procedere allorquando l’agente stia già patendo, a causa di una sua azione od omissione colposa a danno di un prossimo congiunto di cui ne abbia causato la morte, un dolore proporzionato alla gravità del reato commesso.

La pronuncia della Corte Costituzionale

La Corte Costituzionale, con la sentenza n. 48 del 2024, ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale avverso l’art. 529 c.p.p. sollevata dal Tribunale di Firenze.

L’arresto della Consulta ruota attorno all’eccessiva ampiezza del petitum formulato dal giudice a quo , vertente sulla mancata possibilità per il giudice di pronunciare sentenza ex art. 529 c.p.p., allorquando l’agente abbia causato con un proprio comportamento colposo la morte di un prossimo congiunto, e per tale motivo già patisca un dolore proporzionato alla gravità del reato commesso - la pena naturale - che rende così inutile, eccessiva ed inumana la pena inflitta dal giudice sulla base delle norme sanzionatorie all’esito del giudizio.

1) Il riferimento ai reati colposi. Il giudice delle leggi ritiene che sia eccessivamente lato il riferimento compiuto dall’Autorità rimettente ai reati connotati dalla colpa. Così opinando, infatti, non si tiene conto che tale coefficiente psicologico presenta una natura multiforme (la colpa generica, la colpa specifica, la colpa cosciente o con previsione dell’evento, …) che si traduce sul piano fenomenico in “ipotesi molto diverse tra loro sotto il profilo criminologico e della protezione dei beni ” .

Peraltro, il generico riferimento ai “reati”, in luogo del più specifico termine “delitti”, significa che debbano essere ricompresi nell’alveo della pena naturale anche le sofferenze patite per avere posto in essere delle contravvenzioni contro un prossimo congiunto contrassegnate dalla colpa, come ad esempio le contravvenzioni che puniscono le condotte poste in essere dal datore di lavoro contrarie alle norme antinfortunistiche ai sensi del d.lvo. 81/2008 come nel caso da cui è scaturita l’ordinanza di rimessione alla Consulta. Così facendo, però, secondo la Corte Costituzionale viene inevitabilmente frustrata la funzione preventiva delle suddette norme contravvenzionali.

2) Il riferimento ai “prossimi congiunti”. La nozione di “prossimo congiunto” si ricava dall’art. 307 c.4 c.p., il quale enuncia un ampio spettro di rapporti interpersonali (il vincolo di coniugio, di unione civile, di parentela e di affinità). Tuttavia, secondo la Corte Costituzionale, non sussiste alcun vincolo costituzionale per cui tale gamma di rapporti personali debba godere di una causa di improcedibilità sulla scorta della sofferenza patita dall’autore del reato colposo di omicidio a danno di un suo prossimo congiunto.

3) Causa di non procedibilità o causa di non punibilità. La Corte Costituzionale ritiene che la richiesta di interpolazione effettuata dal giudice a quo nei confronti dell’art. 529 c.p.p., concernente le sentenze di non luogo a procedere giacché l’azione penale non doveva essere iniziata o non deve essere proseguita, si traduce nella deroga all’instaurazione od alla prosecuzione del processo in virtù della sussistenza della poena naturalis . Significa, dunque, che il giudice rimettente configura la pena naturale quale causa di non procedibilità, la quale, tuttavia, produce effetti ben diversi rispetto alla causa di non punibilità (ad esempio in tema di iscrizione della pronuncia nel casellario giudiziario). Ordunque, non sussiste per il giudice delle leggi alcun aggancio costituzionale per cui la pena naturale, per aver cagionato colposamente la morte di un prossimo congiunto, debba necessariamente essere congegnata quale causa di non procedibilità anziché, in astratto, integrare un’esimente sostanziale oppure una circostanza attenuante soggettiva.

Per i motivi anzidetti, come poc’anzi annunciato, la Corte Costituzionale ha rigettato la questione di legittimità costituzionale dell’art. 529 c.p.p. considerandola infondata.

Considerazioni conclusive

La Corte Costituzionale, dunque, non ha riconosciuto cittadinanza alla “pena naturale” all’interno dell’ordinamento penale. Tuttavia, la riflessione compiuta dal giudice a quo sul valore della sofferenza patita dal soggetto agente - il quale abbia cagionato la morte per sua colpa di un prossimo congiunto - tale da derogare all’applicazione della sanzione penale prevista dalla norma incriminatrice per il reato commesso, non è estranea alla dottrina. Già, difatti, come enunciato dal Tribunale di Firenze, la Commissione Pagliaro nel 1991 per l’elaborazione di uno schema di delega per il nuovo codice penale, riportava nella proposta di articolato di “prevedere che il giudice, nel pronunciare sentenza di condanna per un reato colposo, possa astenersi dall’infliggere la pena, quando il reo abbia subito gli effetti pregiudizievoli del reato in misura e forma tale che l’applicazione della pena risulterebbe ingiustificata sia in rapporto alla colpevolezza che alle esigenze di prevenzione speciale” . Si tratta di un chiaro riconoscimento della portata della poena naturalis.

Inoltre, anche la Commissione Pisapia nel 2006, incardinata per elaborare un progetto di riforma organica del codice penale, suggeriva l’introduzione di un “c orrettivo di equità ”, ossia di “prevedere che il giudice possa applicare, con provvedimento analiticamente motivato, una diminuzione della pena per non più di un terzo nei casi in cui, dopo aver determinato la pena in concreto, questa risulti palesemente eccessiva rispetto all’effettivo disvalore del fatto” .

Non appare, pertanto, inverosimile che in futuro il legislatore possa riconoscere, attraverso l’elaborazione di un progetto di riforma del codice penale, un valore alla poena naturalis e accoglierla in seno all’ordinamento giuridico.

Per saperne di piùRiproduzione riservata ©