Contraffazione, la prova del lucro cessante non sfugge al Codice civile
Il Codice della proprietà industriale attenua l’onere della prova non lo elimina
In caso di contraffazione di un marchio, anche per la liquidazione del danno da lucro cessante, è necessario provare il danno subìto secondo i criteri previsti dal Codice civile. La Cassazione (sentenza 24635) chiarisce la portata del secondo comma dell’articolo 125 del Codice della proprietà industriale che fa riferimento alle presunzioni per la liquidazione del lucro cessante. Una legge speciale che consente, a chi ha subìto, la violazione di attenuare l’onere probatorio ma non di eliminarlo. Secondo la norma il pregiudizio da lucro cessante può essere determinato in un importo pari a quello che l’autore della contraffazione avrebbe pagato se avesse ottenuto la licenza dal titolare del diritto. È il criterio del cosiddetto giusto prezzo del consenso, che può configurare una fattispecie di danno liquidabile equitativamente, per il quale però non basta solo un’astratta presunzione.
Alla base della querelle un marchio di abbigliamento contraffatto con un danno riconosciuto dal Tribunale, nella forma del lucro cessante, ma negato dalla Corte d’Appello che aveva dunque escluso la liquidazione equitativa tarata sulla royalty. Ad avviso della Corte territoriale non c’era alcuna evidenza del danno. Niente calo di fatturato, né svilimento di un marchio che, sebbene registrato da 38 anni , non era noto. Non era provato che i prodotti “copiati” fossero presenti nei negozi indicati dalla ricorrente, né che il marchio - al quale era legato un fatturato irrisorio - fosse pubblicizzato. Per la società danneggiata però si trattava di prove non richieste dal secondo comma dell’articolo 125 del Cpi, che aprirebbe al risarcimento con un criterio tipizzato: il minimo della liquidazione a prescindere dalla notorietà del brand e dalla diffusione. Il secondo comma sarebbe dunque una via alternativa al primo che, per le varie voci di danno patrimoniale, richiama, infatti, gli articoli 1223,1226 e 1227 del Codice civile. La Cassazione spiega però che non è così.
Il Tribunale, in mancanza di una prova diretta dei danni, secondo le norme del Codice, si era accontentato di una generica denuncia dei pregiudizi.
Mentre la Corte d’appello ha corretto la rotta, in linea con la giurisprudenza secondo la quale il danno da lucro cessante non è in re ipsa e il danneggiato non è dispensato dal provarlo. Il secondo comma della norma esaminata non costituisce, infatti, una deroga, ai principi generali del risarcimento per fatto illecito. Rappresenta solo una semplificazione probatoria, che presuppone comunque un indizio dell’esistenza dei danni arrecati o potenziali. Una conclusione basata sull’interpretazione letterale della norma. La successione logica tra i primi due commi evidenzia l’intento del legislatore di non sganciare il criterio del «giusto prezzo del consenso» dalla norma generale del primo comma che richiama il Codice civile.