Comunitario e Internazionale

Cooperazione internazionale per arginare l’odio in Rete

di Alessandro Galimberti

Se il paradigma della civiltà “social” è il ventenne scoperto a inventare notizie del tutto false - e razziste e sessiste - e che si è giustificato alla Polpostale dicendo «con i like solo queste notizie mi fanno guadagnare tanto» - allora è davvero arrivato il momento di fare qualcosa. Falsità, odio, guadagni formalmente leciti sono i tratti distintivi del lato oscuro dell'era digitale 3.0, in attesa dell'uragano Bigdata che cambierà ancora in peggio, se possibile, lo scenario. Sono le riflessioni che ieri hanno riunito le avvocature del G7 per la prima volta e con gli auspici della presidenza di turno italiana attorno a un tavolo per elaborare idee. Condividere esperienze, prassi procedure è indispensabile per combattere un nemico, il linguaggio dell'odio, che non conosce confini anche grazie alla sostanziale impunità che ha accompagnato i primi 20 anni dell'era connessa.

Oggi, dopo miliardi di insulti online, milioni di “bufale” , migliaia di procedimenti penali arenati davanti alla impossibilità di identificare con certezza l’autore, le istituzioni e le professioni iniziano a muoversi: la firma della dichiarazione comune delle sette avvocature del mondo più avanzato, anche in termini di diritti e garanzie, segna il primo passo verso una nuova cultura “responsabile” nell’uso di internet. Perché se, come dice il presidente del Cnf, Andrea Mascherin, c'è un «monopolio di pochi portatori di poteri straordinari che governano i dati globali, dati che sono commercio e che valgono più delle commodities», il tema oggi è riequilibrare questo potere con la forza del diritto e dei diritti, pensare alla legalità non solo come libertà di fare affari miliardari, ma anche di non abbandonare gli ultimi e i più deboli in una no man land.

Quella terra di nessuno che la presidente della Camera, Laura Boldrini, è costretta da anni a percorrere suo malgrado «in una piramide dell’odio - ha detto all’assemblea di avvocati internazionali - alla cui base ci sono le fake news fatte per creare disprezzo e soprattutto per guadagnare. È la parabola del linguaggio ostile normalizzato, dello spregio come normalità, la banalizzazione dell’odio, la sua normalizzazione».

Che fare? Di fronte a un problema che si scopre terribilmente comune a tutti i Paesi, c’è chi reagisce in solitudine come la Germania, dove è stata approvata una legge con obbligo di rimozione in 24 ore dei contenuti falsi e/o odiosi, ad opera della piattaforma ospitante, pena sanzioni fino a 50 milioni di euro. Sarà un caso che Facebook ha subito inviato in Germania un esercito di 600 “moderatori” per ripulire il social e riportarlo un po’ più vicino a Goethe.

Ma nonostante i giudici facciano sforzi neppure lievi per ingabbiare il nuovo mondo in regole approvate tra il 1930 e il 1940, («A questo punto però serve un intervento di hard law- ha detto il primo presidente di Cassazione, Giovanni Canzio - la soft regulation ben venga ma non basta ad arginare il fenomeno») la via di una rinascita civile di questo lato oscuro del web passa attraverso la collaborazione internazionale. E visto che gli Stati Uniti non sono molto disposti a cedere sui due cardini della loro potenza globale (libertà di impresa e libertà di espressione, di fatto senza limiti entrambe) la via d’uscita non può che essere la collaborazione internazionale, almeno a livello di giurisdizioni e di professioni, con scambio di prassi e di culture. Eugenio Albamonte, presidente Anm ma anche pm a Roma con competenze sul tema, ha spiegato che la convenzione di Budapest sulla collaborazione giudiziaria sostanzialmente funziona, anche se continua a infrangersi laddove non c’è doppia imputabilità (motivo per cui Facebook e Google non collaborano mai in tema di diffamazione: in California non è reato).

La soluzione però, forse, è davvero cercare di riportare nel reale il mondo digital. Come ha detto il ministro Andrea Orlando in chiusura del summit forense, «i nostri ordinamenti si basano su patti sociali, mentre in rete ciò non accade ancora, e questo è un tema che chiama in causa l’esigenza di costruire corpi sociali virtuali che replichino quelli del secolo scorso nella società reale». I “partiti” della rete.

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