Amministrativo

Da alcune recenti sentenze in tema di flagship stores un supporto all'estensione dell'Amount B ai retailers

L'approccio di fondo dell'Amount B mira a semplificare la determinazione della remunerazione infragruppo per le attività definite di baseline distribution e potrebbe rappresentare una sorta di "safe harbour", mettendo cioè i gruppi multinazionali al riparo da contestazioni dell'amministrazione finanziaria sui prezzi di vendita ai propri distributori correlati

di Edoardo Belli Contarini e Raffaello Fossati*

Nella recente consultazione pubblica in tema di tassazione dell'economia digitale e conseguenti modifiche alla disciplina dei prezzi di trasferimento (c.d. "Pillar one"), l'OCSE ha chiesto ai commentatori se l'"Amount B" sia applicabile anche ai rivenditori al dettaglio, c.d. retailers (vedasi il documento OCSE 8.12.2022, preordinato, all'esito della consultazione, ad entrare in vigore dal 2024).

L'approccio di fondo dell'Amount B mira a semplificare la determinazione della remunerazione infragruppo per le attività definite di baseline distribution e potrebbe rappresentare una sorta di "safe harbour", mettendo cioè i gruppi multinazionali al riparo da contestazioni dell'amministrazione finanziaria sui prezzi di vendita ai propri distributori correlati.

Infatti - come si desume pure dalle sentenze nel seguito esaminate - i rapporti tra capogruppo e consociate distributive estere risultano non di rado oggetto di verifica erariale.

Se l'applicazione dell'Amount B alle entità locali che operano all'ingrosso è fuori discussione, alcuni dubbi rimangono per i soggetti che operano come agenti o commissionari, da un lato, e come retailers, dall'altro.

Questi ultimi svolgono funzioni generalmente differenti rispetto ai soggetti che operano all'ingrosso, tant'è che di regola vengono effettuate distinte analisi di benchmark.

Tuttavia, nella prospettiva di semplificazione e di evitare contestazioni del fisco, secondo quanto previsto nell'Amount B, la relativa remunerazione potrebbe essere predeterminata, stabilendo ex ante un apposito livello di margine operativo.

Sotto altro profilo però, il ruolo dei retailers risulta spesso importante al fine di accrescere la notorietà e la visibilità dei marchi del gruppo; aspetto questo, che potrebbe non risultare coerente con il perimetro di applicazione dell'Amount B, in quanto trattasi di funzioni potenzialmente ad elevato valore aggiunto, che travalicherebbero quindi il perimetro della baseline distribution.

A tal proposito, si ricorda come in alcuni settori, quali la moda e il lusso, è prassi garantire ai retailer un c.d. marketing contribution volto a coprire le elevate spese sostenute per il personale qualificato e per la locazione dei locali nelle zone più prestigiose delle principali città.

Appare quindi evidente come tali spese incrementino il valore del marchio con cui i prodotti vengono commercializzati, piuttosto che il volume d'affari degli stessi retailers; tant'è vero che tali punti vendita vengono definiti "flagship stores". Va inoltre considerato che il diffondersi dell'e-commerce ha reso ancora più accentuato il ruolo degli stores quali "touchpoint" dove il consumatore fa "esperienza sensoriale" del marchio per poi effettuare l'acquisto online.

Ed è proprio su questo peculiare aspetto che assumono rilievo due recenti sentenze concernenti "case di moda" italiane, analizzando la medesima fattispecie da entrambe le prospettive (i.e., quella della casa di moda italiana e quella del retailer estero).

Da un lato, la Corte di cassazione (sentenza n. 2599 del 27.1.2023) ha confermato la deducibilità di tali marketing contributions per la licenziataria (e sub-licenziante) italiana, alla quale l'Agenzia aveva contestato l'insufficiente documentazione e l'inerenza dei costi, in quanto riferibili al titolare del marchio.

Dall'altro, la Corte di appello di Parigi (sentenza relativa al caso n. 20PA03601 del 30.6.2022) che, sulla base di una precedente sentenza del Consiglio di Stato transalpino, ha dato ragione all'autorità fiscale francese, la quale aveva contestato al retailer locale del gruppo italiano le costanti perdite connesse agli eccessivi costi per i flagship stores.

In entrambi i casi, quindi, sembra confermato che la remunerazione del retailer debba essere in qualche modo "garantita" o per il tramite di minori prezzi di acquisto oppure con uno specifico rimborso dei costi sostenuti in eccesso rispetto ai soggetti indipendenti.

In ogni caso, dalle sentenze in esame si desume come sia necessario verificare che la gestione di flagship stores non penalizzi la marginalità dei retailers generando perdite operative.

Tale approccio, quindi, risulta coerente con il metodo dei margini netti della transazione (TNMM) e con il modello previsto dall'Amount B, che sembra anch'esso fondato sulla determinazione di un margine operativo target.

Sotto quest'ultimo profilo, resta ovviamente ancora da finalizzare l'analisi di benchmark che sta elaborando l'OCSE e che potrebbe quindi sostituirsi alle analisi attualmente svolte in modo autonomo dai contribuenti.

*a cura di Avv. Edoardo Belli Contarini, socio Fantozzi & Associati e Dott. Raffaello Fossati, associato Fantozzi & Associati

Per saperne di piùRiproduzione riservata ©