“Daspo ai corrotti”, inizia l’iter parlamentare del disegno di legge sui reati contro la Pa
Ennesimo intervento sul fronte della corruzione (il quarto dal 2012 se si tiene conto anche della riforma dell'Anac) e proprio nel momento in cui la Corte d'appello di Roma, modificando la sentenza di primo grado, prende in esame nel processo Mafia-Capitale le delicate interconnessioni tra devianze istituzionali e agglomerati malavitosi.
Il contrasto alla corruzione e la questione del Daspo ai corrotti - Il disegno di legge - recante «Misure per il contrasto dei reati contro la pubblica amministrazione», approvato dal Governo nel Consiglio dei ministri n. 18 del 6 settembre 2018 - inizia il suo non semplice iter parlamentare all'insegna di uno slogan mediatico di grande efficacia: il Daspo per i corrotti. Laddove per Daspo si vuole indicare un complesso di modifiche al codice penale (e non solo) che punta a escludere pressoché definitivamente i condannati per gravi delitti contro l'amministrazione dall'alveo dei contratti a evidenza pubblica e dalla correlativa negoziazione.
Si avrà tempo, nel prosieguo dei lavori delle Camere, di verificare quali e quante delle proposte governative saranno tradotte in legge, al momento si deve esprimere un giudizio complessivamente positivo per il pacchetto di modifiche suggerite dal ministero di via Arenula. Poiché sono certo positive, al di là del restyling di alcune disposizioni sanzionatorie, le innovazioni sul versante dell'agente sotto copertura e della causa di non punibilità per chi denunci tempestivamente la corruzione. Si tratta, si badi bene, di due modifiche che si sostengono reciprocamente, e l'intuizione di proporle congiuntamente sembra del tutto corretta.
Si doveva per forza destabilizzare la cornice di omertà e di reciproca convenienza che circonda i delitti di corruzione e, in genere, la messa a disposizione delle funzioni pubbliche e che rende difficile la collaborazione di giustizia e le due modifiche imboccano decisamente questa strada.
L’attuale quadro sanzionatorio e la causa di non punibilità - È sotto gli occhi di tutti che la sola attenuante di cui all'articolo 323-bis del Cp (voluta dalla legge 69/2915) non era sufficiente a favorire l'emersione della corruzione e la denuncia delle dazioni. Occorreva, sulla scia della legislazione di altri Paesi, rendere precario e provvisorio l'accordo corruttivo, la certezza che nessuna delle due parti del sinallagma avesse realmente interesse a denunciare l'altra. A questo dovrebbe porre un efficace rimedio il nuovo articolo 323-ter del Cp che introduce una speciale causa di non punibilità allorquando recita: «Non è punibile chi ha commesso taluno dei fatti previsti dagli articoli 318, 319, 319-quater, 320, 321, 322-bis, limitatamente ai delitti di corruzione e di induzione indebita ivi indicati, 346-bis se, prima dell'iscrizione a suo carico della notizia di reato nel registro di cui all'articolo 335 del codice di procedura penale e, comunque, entro sei mesi dalla commissione del fatto, lo denuncia volontariamente e fornisce indicazioni utili per assicurare la prova del reato e per individuare gli altri responsabili».
Il costrutto è chiaro ed esso si estende per certo anche al tentativo di commettere uno dei delitti ivi indicati. Si pone un limite temporale del tutto ragionevole (sei mesi dal fatto) per compiere la scelta di denunciare. La mera denuncia, come si vede, non è sufficiente, ma si esige anche che il reo resipiscente dia agli acquirenti elementi utili ad assicurare la prova del reato (già consumato) e per assicurare alla giustizia gli altri responsabili. La causa rimanda a congegni identici in materia di attenuanti e non presenta vulnerabilità di sorta. Certo laddove a denunciare il reato sia un pubblico ufficiale, l'incaricato di pubblico servizio o il mediatore illecito, la non punibilità è stata «subordinata alla messa a disposizione della utilità percepita o, in caso di impossibilità, di una somma di denaro di valore equivalente ovvero alla indicazione di elementi utili a individuarne il beneficiario effettivo, entro il medesimo termine» di sei mesi. Quindi, per evitare imboscate, la nuova norma si chiude con una clausola significativa e di rilievo secondo cui «la causa di non punibilità non si applica quando vi è prova che la denuncia di cui al primo comma è premeditata rispetto alla commissione del reato denunciato».
L'annosa questione dell'agente sottocopertura - E qui la questione flette in direzione dell'annosa e controversa questione dell'utilità o meno dell'agente sotto copertura per i reati di corruzione. L'opinione largamente e da lungo tempo favorevole a questa imprescindibile opzione si rafforza, sul piano delle garanzie, proprio per effetto della limitazione ora ricordata portata dall'articolo 323-te r del Cp che esclude tout court la possibilità di agenti provocatori per i reati di corruzione. La disposizione, in altri termini, risolve espressamente il tema dell'agente provocatore e correttamente in senso negativo, escludendo che possa beneficiare dell'esimente in parola colui il quale corrompa o si faccia corrompere al solo fine di denunciare il correo.
Sia chiaro, il profilo non ha nulla a che vedere con il caso in cui ad esempio il privato, in accordo con gli inquirenti, si appresti al pagamento di una somma per far arrestare il funzionario infedele. In quel caso non sussiste l'elemento soggettivo del reato di corruzione e, quindi, nulla quaestio . Piuttosto la regolazione di confine riguarda i casi in cui, anche da parte degli inquirenti, si governi una fase di induzione alla corruzione del pubblico dipendente per giungere al suo arresto.
Il combinato disposto del nuovo articolo 323-ter del Cp e dell'articolo 9 della legge 146/2006 sembra escludere una tale evenienza (ossia la legittimità dell'agente provocatore). È un effetto probabilmente ragionato e perseguito con coerenza dal disegno di legge che non vuole in alcun modo aprire la strada a operazioni spericolate con cui si inducono personaggi pubblici a ricevere dazioni per poi inquisirli.
Il limes tra le agente provocatore e agente sottocopertura è, ora, del tutto chiaro e questo dovrebbe sopire ogni polemica e ogni preoccupazione sulla novella in esame.
Come detto l'articolo 9 della legge 146/2006 dovrebbe essere modificato prevedendo che non siano punibili gli ufficiali di polizia giudiziaria della Polizia di Stato, dell'Arma dei carabinieri e del Corpo della guardia di finanza, appartenenti alle strutture specializzate o alla Direzione investigativa antimafia i quali, nel corso di specifiche operazioni di polizia e, comunque, al solo fine di acquisire elementi di prova in ordine (anche) ai delitti previsti dagli articoli 317, 318, 319, 319-bis, 319-ter, 319-quater, primo comma, 320, 321, 322, 322-bis, 346-bis, 353 del Cp «acquistano, ricevono, sostituiscono od occultano denaro o altra utilità... documenti,... beni ovvero cose che sono oggetto, prodotto, profitto, prezzo o mezzo per commettere il reato o ne accettano l'offerta o la promessa o altrimenti ostacolano l'individuazione della loro provenienza o ne consentono l'impiego ovvero corrispondono denaro o altra utilità in esecuzione di un accordo illecito già concluso da altri, promettono o danno denaro o altra utilità richiesti da un pubblico ufficiale o da un incaricato di pubblico servizio o sollecitati come prezzo della mediazione illecita verso un pubblico ufficiale o un incaricato di pubblico servizio o per remunerarlo o compiono attività prodromiche e strumentali». A parte qualche difficoltà a catalogare sotto l'egida codicistica le «attività prodromiche», resta chiaro che l'induzione non appartiene alle attività scriminate, mentre vi rientra, però, l'istigazione alla corruzione (articolo 322 del Cp) con intuibili difficoltà interpretative che andrebbero evitate per non ricadere nell'alveo (non consentito) dell'agente provocatore.