Penale

Dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, la verifica del giudice deve seguire criteri precisi

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di Giuseppe Amato

La validazione delle dichiarazioni accusatorie dei collaboratori di giustizia deve procedere secondo un ordine logico-giuridico. La Cassazione con la sentenza n. 18018 del 23 aprile 2018 elenca quest’ordine: innanzitutto, la verifica della “credibilità soggettiva” del dichiarante - da compiersi in relazione alla sua personalità, alle sue condizioni socio-economiche e familiari, al suo passato, ai suoi rapporti con i soggetti accusati, nonché alle ragioni che ne hanno indotto la scelta collaborativa - cui deve seguire o comunque accompagnarsi la verifica dell'“attendibilità oggettiva” delle dichiarazioni rese, da apprezzarsi nella loro consistenza intrinseca e nelle loro caratteristiche, con riguardo alla spontaneità, all'autonomia, alla precisione, alla completezza della narrazione dei fatti, alla loro coerenza e costanza; soltanto dopo avere sciolto in senso positivo, alla stregua dei suddetti parametri, il giudizio sulla credibilità del collaboratore e delle sue propalazioni accusatorie, il giudice di merito è legittimato - e tenuto - a verificare l'esistenza dei “riscontri esterni”, di natura individualizzante, necessari a confermare l'attendibilità delle dichiarazioni ai sensi dell'articolo 192, comma 3, del Cpp.

A tal proposito, se la credibilità soggettiva del dichiarante e l'attendibilità oggettiva del suo narrato devono essere apprezzate unitariamente, e quindi la valutazione del giudice non deve necessariamente muovere attraverso passaggi rigidamente separati, il riscontro estrinseco di attendibilità di cui all'articolo 192, comma 3, del codice di procedura penale deve invece costituire oggetto di un momento valutativo logicamente successivo, in quanto non è possibile procedere a un apprezzamento unitario della dichiarazione accusatoria e degli altri elementi di prova che ne confermano l'attendibilità se prima non si chiariscono gli eventuali dubbi che si addensino sulla dichiarazione in sé considerata, indipendentemente dagli elementi di verifica esterni a essa. Pertanto, non è giuridicamente consentito sanare o supplire le carenze strutturali del giudizio di affidabilità soggettiva e intrinseca della dichiarazione accusatoria mediante la valorizzazione degli eventuali elementi di riscontro estrinseco della stessa, i quali possono - e devono - essere apprezzati nella loro capacità di concorrere a confermare ab externo i contenuti dichiarativi soltanto dopo l'autonomo superamento, con esito positivo, del vaglio di credibilità soggettiva della fonte e di attendibilità intrinseca delle sue dichiarazioni.

È principio consolidato, sotto il profilo metodologico, quello secondo cui, ai fini di una corretta valutazione di una chiamata in correità, il giudice deve in primo luogo verificare la credibilità del dichiarante, valutando la sua personalità, le sue condizioni socio-economiche e familiari, il suo passato, i suoi rapporti con i chiamati in correità e le ragioni che lo hanno indotto alla confessione e all'accusa dei coautori e complici; in secondo luogo, deve verificare l'attendibilità delle dichiarazioni rese, valutandone l'intrinseca consistenza e le caratteristiche, avendo riguardo, tra l'altro, alla loro spontaneità e autonomia, alla loro precisione, alla completezza della narrazione dei fatti, alla loro coerenza e costanza; deve, infine, verificare l'esistenza di riscontri esterni, onde trarne la necessaria conferma di attendibilità. Questi ultimi, poi, possono consistere in elementi di qualsivoglia natura anche di carattere logico; ciò, peraltro, a condizione che, oltre a essere individualizzanti, e quindi avere direttamente a oggetto la persona dell'incolpato in relazione allo specifico fatto a questi attribuito, debbono essere esterni alle dichiarazioni accusatorie, allo scopo di evitare che la verifica sia circolare e autoreferente (tra le altre, sezione III, 4 dicembre 2014, M. e altro).

Quanto poi ai “riscontri estrinseci”, si è convincentemente affermato che questi, dal punto di vista oggetti­vo, possono consistere in qualsiasi circostanza, fattore o dato probatorio, non predeterminato nella specie e qualità, e avere, pertanto, qualsiasi natura: i riscontri, dunque, possono consistere in elementi di prova sia rappresentativa che logica, e anche in un'altra chiamata in correità, a condizione che questa sia totalmente autonoma e avulsa rispetto a quella da “corroborare”. È essenziale, inoltre, che tali riscontri siano “indipendenti” dalla chiamata, nel senso che devono provenire da fonti estranee alla chiamata stessa, in modo da evitare il cosiddetto feno­meno della “circolarità” della acquisizione probatoria, e cioè, in definitiva, che sia la stessa chiamata a convalidare se stessa.

I riscontri, infine, nell'ottica del giudizio di condan­na, devono avere valenza “individualizzante”, devono, cioè, riguardare non soltanto il complesso delle dichiarazioni, ma anche la riferibilità dello specifico fatto-reato alla specifica posizione soggettiva dell'imputato; in altri termini, i riscontri non devono semplicemente consistere nell'oggettiva conferma del fatto riferito dal chiamante, ma devono costituire elementi che collegano il fatto stesso alla persona del chiamato, fornendo un preciso contributo dimostrativo dell'attribuzione a quest'ultimo del reato contestato. Per converso, non è invece richiesto che i riscontri abbiano lo spessore di una prova “autosufficiente”, perché, in caso contrario, la chiamata non avrebbe alcun rilievo, in quanto la prova si fonderebbe su tali elementi esterni e non sulla chiamata in correità (Sezione II, 3 maggio 2005, Tringali e altri).

Cassazione – Sezione I penale – Sentenza 23 aprile 2018 n. 18018

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