Dichiarazioni spontanee senza «garanzie»
La polizia giudiziaria può acquisire, senza mediazione del Pm, le dichiarazioni spontanee dell’indagato in assenza del difensore e omettendo l’avviso di esercitare il diritto al silenzio. Le “notizie” raccolte possono essere utilizzate nella fase procedimentale e quindi nell’incidente cautelare e nei riti a prova contraria, ma non possono essere usate come prova in dibattimento.
Spetta poi al giudice accertare, anche d’ufficio, sulla base di tutti gli elementi a sua disposizione, che le affermazioni dell’indagato siano state realmente spontanee e non indotte o sollecitate: una valutazione di cui il giudice deve dare atto con una motivazione adeguata. La Cassazione, con la sentenza 26246 depositata ieri, prende le distanze dal principio secondo il quale, qualunque dichiarazione, sia spontanea sia sollecitata, assunta senza le garanzie previste dall’articolo 64 del codice di procedura penale per l’interrogatorio, con i relativi avvertimenti è radicalmente inutilizzabile.
I sostenitori di questo indirizzo, non condiviso nella sentenza in commento, basano la loro tesi sulla lettura dell’articolo 63 del codice di rito, che prevede l’inutilizzabilità delle dichiarazioni fatte alla polizia giudiziaria da una persona non imputata o non sottoposta a indagini, nel caso emergano indizi a suo carico. Lo stesso vale se la persona doveva essere sentita sin dall’inizio in qualità di imputato o come persona sottoposta a indagini.
Una norma che, per i fautori della tesi più “garantista” sarebbe prevalente sull’articolo 350, comma 7 del codice di procedura penale che, al contrario, è esplicita nel limitare l’inutilizzabilità delle dichiarazioni spontanee solo al dibattimento.
Ed è appunto sulla lettura di quest’ultima norma che, con la sentenza 26246, i giudici basano la loro decisione.
La Suprema corte respinge il ricorso di un indagato per riciclaggio, il cui difensore contestava la possibilità di usare, in qualunque contesto, quanto detto dal suo cliente alla polizia giudiziaria nel corso di una perquisizione domiciliare.
La Cassazione però non è d’accordo. L’articolo 350, finito nel mirino della difesa, è infatti, compatibile con le indicazioni della normativa europea e, in particolare con quelle contenute nella direttiva 2012/13/Ue in materia di diritti di informazione dell’indagato. La direttiva in questione è stata attuata con il Dlgs 101 del 2014 che, sottolinea la Suprema corte, non ha modificato l’articolo 350.
Con l’articolo 3 la norma europea chiede agli Stati membri di informare “tempestivamente” le persone imputate o indagate del loro diritto a farsi assistere da un legale o di restare in silenzio. Una disposizione attuata solo attraverso la modifica degli articoli 291 e 369 bis del codice di procedura penale in tema di misure cautelari e indagini preliminari. Il legislatore ha, evidentemente, ritenuto “tempestive” le informazioni di garanzia fornite al momento dell’applicazione delle misure cautelari e del compimento degli atti ai quali il difensore ha diritto di assistere. Mentre, non intervenendo sull’articolo 350, ha voluto lasciare l’indagato libero di entrare in contatto con la polizia giudiziaria in modo “informale” nel corso di tutta l’attività processuale.
Per la Cassazione l’interpretazione è conforme anche con la giurisprudenza della Cedu, almeno con il suo orientamento consolidato, mentre non esiste nessun obbligo, come affermato dalla Consulta (sentenza 49 del 2015)di allinearsi a pronunce che esprimono principi non definitivi.
Corte di cassazione - Sentenza 26246/2017