Penale

Diffamazione a mezzo facebook e provocazione soggettivamente percepita

Nota a sentenza, V sezione penale, n. 8898 del 2021

di Mattia Miglio e Alberta Antonucci*


1. Con la sentenza che qui si commenta, la Cassazione torna ad occuparsi dei profili di carattere penalistico sottesi alle condotte diffamatorie poste in essere a mezzo social.

Nella vicenda in esame, ai due odierni imputati veniva contestato di aver offeso pubblicamente su Facebook un ciclista professionista - appartenente al team sportivo di uno dei due imputati - per non aver preso parte ad una gara.

Dopo la sentenza di condanna emessa dalla Corte d'Appello, la difesa presentava ricorso per cassazione, rilevando che i commenti dei due imputati dovevano ritenersi scriminati ai sensi dell'art. 599 c.p.: secondo la tesi difensiva, tali esternazioni non costituivano - come concluso nella sentenza impugnata - una reazione all'impossibilità del ciclista a prendere parte a una competizione ciclistica a causa di un infortunio.

Piuttosto, nell'ottica della difesa, tali apprezzamenti sarebbero state provocate da una serie di comportamenti poco professionali posti in essere dall'odierna persona offesa.

Come si può leggere nelle motivazioni, la Suprema Corte respinge tale censura e, nel confermare le conclusioni a cui era pervenuta la Corte d'Appello, puntualizza che il giudice di merito "si è attenuto al condiviso orientamento della giurisprudenza di legittimità secondo cui il comportamento provocatorio [...] che causa lo stato di ira e la reazione offensiva dell'offensore, anche quando non integrante gli estremi di un illecito codificato, deve comunque potersi ritenere contrario alla civile convivenza secondo una valutazione oggettiva e non in forza della mera percezione negativa che del medesimo abbia avuto l'agente" (p. 2).

Detto altrimenti, "non è dunque sufficiente che questi si sia sentito provocato, ma è necessario che egli sia stato oggettivamente provocato" (pp. 2-3).
In definitiva, i menzionati principi, precisa la Corte, non possono trovare applicazione nella vicenda in esame, dal momento che le allegazioni della difesa integrano un'ipotesi di provocazione solo soggettivamente ritenuta senza che, a monte, la persona offesa abbia posto in essere un comportamento oggettivamente ingiusto tale da determinare lo stato d'ira che ha determinato la commissione dei fatti diffamatori ex art. 595 c.p.

2. Accanto a tale profilo, la sentenza affronta altresì i rapporti tra il delitto di diffamazione e il diritto di critica.

In linea di continuità con il tradizionale orientamento, la Corte ricorda che il diritto di critica può infatti "essere evocato quale scriminante [...] rispetto al reato di diffamazione" (p. 4) solo quando venga esercitato nel rispetto dei canoni di veridicità dei fatti, della pertinenza degli argomenti e della continenza espressiva.

Prosegue sempre la Suprema Corte: la nozione di critica rimanda all'area della "disputa e della contraddizione, oltre che della disapprovazione e del biasimo con toni aspri e taglienti" nel rispetto dei limiti "specificamente indicati dal legislatore. Limiti che sono rinvenibili [...] nella difesa dei diritti inviolabili, quale è quello previsto dall'art. 2 Cost., onde non è consentito attribuire ad altri fatti non veri, venendo a mancare, in tale evenienza, la finalizzazione critica dell'espressione, né trasmodare nell'invettiva gratuita, salvo che l'offesa sia necessaria e funzionale alla costruzione del giudizio critico" (p. 4).

Per quanto concerne il profilo della continenza formale - attinente alla modalità con cui il racconti sul fatto è reso o il giudizio critico viene esternato - tale requisito non è incompatibile "con l'uso di termini che, pur oggettivamente offensivi, siano insostituibili nella manifestazione del pensiero critico, per non esservi adeguati equivalenti"; tuttavia, "occorre contestualizzare le espressioni intrinsecamente ingiuriose, ossia valutarle in relazione al contesto spazio-temporale e dialettico nel quale sono state profferite, e verificare se i toni utilizzati dall'agente, pur forti e sferzanti, non risultino meramente gratuiti, ma siano invece pertinenti al tema in discussione, proporzionati al fatto narrato e funzionali al concetto da esprimere" (p. 5).

In questo scenario, assume rilevanza il contesto dialettico nell'ambito del quale tali termini vengono utilizzati, al pari della funzione e delle responsabilità dei soggetti coinvolti: "compito del giudice è, dunque, quello di verificare se il negativo giudizio di valore espresso possa essere, in qualche modo, giustificabile nell'ambito di un contesto critico e funzionale all'argomentazione, così da escludere l'invettiva personale volta ad aggredire personalmente il destinatario con espressioni inutilmente umilianti e gravemente infamanti. Il contesto dialettico nel quale si realizza la condotta può, sì, essere valutato ai limitati fini del giudizio di stretta riferibilità delle espressioni potenzialmente diffamatorie al comportamento del soggetto passivo di critica, ma non può mai scriminare l'uso di espressioni che si risolvano nella denigrazione della persona in quanto tale" (p. 5).

2.1. Delineati tali principi generali, la Suprema Corte - in conformità con le conclusioni della sentenza impugnata - conferma che le esternazioni oggetto dell'odierna imputazione sono idonee a esporre allo scherno e al pubblico ludibrio il destinatario e, in particolare, "si risolvono in un gratuito argomentum ad hominem che la giurisprudenza di questa Corte [...] considera, infatti, condotta non consentita dal diritto di critica" (p. 6).

Tale conclusione trova conferma proprio alla luce del particolare contesto comunicativo all'interno del quale sono state poste in essere le affermazioni offensive.

Gli odierni imputati, infatti, hanno espresso i loro malumori in un social network - ossia "un'area di discussione, in cui qualsiasi utente o i soli utenti registrati (forum chiuso) sono liberi di esprimere il proprio pensiero, rendendolo visionabile agli altri soggetti autorizzati ad accedervi, attivando così un confronto libero di idee in una piazza virtuale" (p. 7) - anziché segnalare eventuali irregolarità nel comportamento dell'atleta innanzi agli organi competenti (es.: CONI, organi di giustizia sportiva etc.)

Tanto è vero che "se i ricorrenti si fossero rivolti a tali organismi per segnalare quello che, a loro modo di vedere, era stato un comportamento poco corretto dell'atleta della squadra, chiedendo risposte jure suo utitur, avrebbero posto in essere una condotta scriminabile ex art. 51 cod. pen." (p. 7), nel pieno rispetto del diritto di critica.

* a cura di Mattia Miglio e Alberta Antonucci

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