Penale

Diffamazione, la notizia di non radiazione del veterinario di Green hill giustifica offesa

L’esimente della provocazione si fonda su contiguità tra fatto ingiusto accertato e stato d’ira espresso con critica offensiva all’autore e sussiste anche se la frustrazione è rinnovata da nuove notizie su fatti risalenti

di Paola Rossi

L’offesa del decoro e dell’onore di una persona è diffamatoria e non può essere scriminata quale legittimo esercizio del diritto di critica contro l’autore di un fatto ingiusto se è in sé gratuita perché priva di continenza per i termini e le modalità con cui è comunicata ad altri. Ma può scattare l’esimente dal reato se l’offensività delle espressioni che travalicano una critica puntuale e contenuta è dovuta allo stato d’ira con cui si agisce contro il fatto ingiusto altrui concretamente verificatosi. Il presupposto è però che la reazione sia immediata e non espressa a freddo cioè a distanza di tempo. L’esimente può però essere ravvisata sussistente anche se l’ingiustizia consumata risale nel tempo, ma la frustrazione che ne consegue sia stata rinnovata dall’apprendimento di nuovi e ulteriori elementi relativi alle persone coinvolte nella vicenda oggetto di critica.

La diffamazione con mezzi telematici non può invece essere scriminata a livello di ingiuria, pur se aggravata dalla comunicazione ad altri, se non è veicolata all’interno di una chat in cui sia partecipe contestualmente l’offeso. Non basta infatti che egli possa successivamente reagire, ad esempio con un post a propria difesa.

La Cassazione penale - con la sentenza n. 20392/2025 - ha accolto il ricorso di un’attivista “animalista” che aveva definito con un post su Facebook “pezzo di merda n. 1 in Italia” il veterinario coinvolto nella vicenda “Green Hill” dell’allevamento-lager di cani beagles destinati alla vivisezione in quanto “difettosi” e invece, fortunatamente, oggetto di liberazione dalla loro triste prigione a seguito del blitz di attivisti che salvò ben 2.639 cani poi felicemente affidati a delle nuove famiglie. Fatti che furono scoperti nel 2012 innescando una gara di solidarietà e cura verso i piccoli beagles sottratti alla morte e ai maltrattamenti agiti da chi li deteneva a fini di sperimentazione, compresa la loro vivisezione.

In effetti il veterinario offeso dall’imputata era stato ai tempi condannato per uccisione e maltrattamento di animali, quindi il fatto era certo e non attribuito falsamente al medico. La Cassazione ha però respinto la derubricazione della diffamazione contestata a ingiuria (reato oggi abrogato) mentre ha accolto con annullamento e conseguente rinvio all’esame del giudice di merito la sollevata questione dell’esimente dello stato d’ira in cui ha agito l’imputata al momento di aver appreso la notizia appena diffusa sull’imminente ripresa dell’attività professionale da parte del veterinario in quanto solo sospeso dall’Ordine di appartenenza e non radiato a vita.

Per la Cassazione la notizia poteva ben aver riacceso lo stato di frustrazione e la conseguente ira dell’imputata contro l’ingiustizia del fatto che non si determina solo per quelli codificati, ma anche per quelli che colpiscono i canoni condivisi dalla collettività per una civile convivenza sociale.

La scoperta di quella che era un prigione per cani e la visione delle immagini dei piccoli beagles passati di mano in mano oltre il filo spinato determinarono una forte presa di coscienza collettiva tale da determinare nel 2014 il varo di una legge che proibisce in Italia l’allevamento di animali cosiddetti “di laboratorio”.

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