Professione e Mercato

Esercizio abusivo della professione, avvocato cancellato dall'Ordine inchiodato dai registri online

La Cassazione, sentenza n. 7252, utilizza i registri di cancelleria, Sic e Siecid, per "incastrare" (e condannare) l'avvocato cancellato per esercizio abusivo della professione

di Marina Crisafi

Sono i registri online di cancelleria a inchiodare per esercizio abusivo della professione l'avvocato che continua a difendere i clienti pur essendo stato cancellato dall'ordine. A pesare è la certificazione del direttore di cancelleria il quale attesta che da Sic e Siecid il legale è ancora patrocinatore di cause pendenti. Ed è esclusa la prescrizione perchè attraverso il patrocinio e la domiciliazione si è in presenza di unico reato il cui momento consumativo coincide con la cessazione della condotta. Questo quanto si ricava dalla sentenza n. 7252/2021 della sesta sezione penale della Cassazione.

I fatti
Nulla da fare quindi per il legale già condannato in primo grado (in esito a giudizio abbreviato) a 2 mesi e 20 giorni di carcere per il reato ex articolo 348 c.p. per esercizio abusivo della professione di avvocato per aver patrocinato le parti in diversi procedimenti pur essendo destinatario di un provvedimento di cancellazione dall'albo.
Il ricorrente adisce comunque il Palazzaccio denunciando illegittimità e abnormità della decisione di primo grado, fondata su un mero elenco prodotto in allegato all'imputazione non essendo rivenuta in atti l'acquisizione della documentazione di riferimento, nonché motivazione contraddittoria e dicotomica ai fini della sussistenza dell'elemento soggettivo del reato ex articolo 348 c.p., posto che egli stesso aveva eccepito l'illegittimità della notifica del provvedimento di sospensione adottato dal Consiglio dell'ordine degli avvocati.
Eccepiva, inoltre, violazione di legge in ordine al mancato riconoscimento della prescrizione, considerato che, dalla data risultante dalla ricognizione effettuata dal direttore di cancelleria sui registri Sic e Siecid, cui la corte ha conferito dignità di prova, il reato risultava prescritto.

Esercizio abusivo della professione senza se e senza ma
Per gli Ermellini, però, il ricorso è inammissibile perché proposto per motivi generici e manifestamente infondati. Non reggono innanzitutto le tesi sulla sussistenza dell'elemento psicologico del reato, già valutate dai giudici di merito che correttamente hanno individuato la data di efficacia del provvedimento di cancellazione del ricorrente dall'ordine degli avvocati.
Escluso quindi qualsiasi vizio di nullità o inesistenza del provvedimento di cancellazione che era stato debitamente notificato all'imputato e che era stato da questi impugnato nelle competenti sedi, sicchè, risulta pienamente comprovata la conoscenza del provvedimento di cancellazione, e, una volta che questo è diventato esecutivo, il consapevole svolgimento di attività difensiva in carenza della necessaria abilitazione.
Per cui non si discute: l'avvocato, non possedeva il requisito prescritto per l'esercizio della professione.

Prova dai registri di cancelleria
E nonostante ciò è stato accertato, continuano i giudici di piazza Cavour, attraverso le certificazioni estratte dal SIC e dal SIECID - i registri informatizzati delle procedure civili ed esecutive - che lo stesso risultava ancora patrocinatore di diverse cause (seppur in numero decisamente minore rispetto a quelli indicati nell'originaria contestazione), come attestato dal direttore di cancelleria in esito alla produzione dell'elenco stesso.
Manifestamente infondata è anche la lamentela sull'acquisizione della documentazione, debitamente acquisita agli atti processuali, giacchè lo smarrimento delle cartelle si è verificato solo nella fase di trasmissione degli atti dal tribunale alla corte, il cui contenuto è stato ricostituito attraverso la richiesta alle parti di produrre la documentazione in loro possesso.
Proprio sulla scorta di tale ricostruzione della vicenda processuale sono corrette le conclusioni alle quali la Corte di merito è pervenuta escludendo che la decisione del giudice di primo grado sia stata adottata in mancanza della documentazione probatoria prodotta.
Tale situazione sarebbe assimilabile, evidenzia la S.C., "a quella in cui il giudice, ammessa la integrazione probatoria richiesta dalla parte, provveda poi alla definizione senza assumere la prova stessa". Ed è solo in tale evenienza che "potrebbe ritenersi integrata una nullità d'ordine generale che la giurisprudenza ha ritenuto configurabile nel caso in cui, ammessa la prova richiesta dall'imputato, il giudice decida senza assumerla perché superflua, nullità che, peraltro, sarebbe sanata se non eccepita prima della chiusura della fase di assunzione della prova (cfr. Cass. n. 50194/2018), a comprova dell'assunto che non ci si trova in presenza di un vulnus al diritto alla prova". Questa violazione però non si è verificata nel caso in esame poiché nel compendio probatorio esaminato dal giudice di prime cure erano presenti tutti gli atti prodotti dall'imputato e alla cui acquisizione era stata subordinata la richiesta di giudizio abbreviato.
L'impossibilità di ricostruire il compendio probatorio nella sua integralità "non determina, perché non prevista, alcuna nullità della decisione del giudice di appello, né la difesa ha allegato che la decisione di merito sia inficiata dalla perdita di atti fondamentali per la dimostrazione della tesi difensiva".
Ergo, non ci sono elementi per disattendere il principio affermato dalla giurisprudenza secondo cui "la previsione normativa del potere del giudice di stabilire le modalità di ricostituzione degli atti mancanti non individua alcun vincolo di contenuto e non prevede alcuna sanzione per eventuali vizi dell'attività di formazione, purché la ricostituzione avvenga secondo le forme ritenute dal giudice conformi allo scopo per il quale la procedura è prevista. Né la procedura seguita dà luogo ad un atto abnorme poiché si tratta di esplicazione di un potere finalizzato ad evitare la dispersione del compendio probatorio, e non, invece, ad una integrazione probatoria esaurendosi in un'attività di natura meramente ricognitiva" (cfr. Cass. n. 50406/2014).

Niente prescrizione
Non merita miglior sorte, infine, la dedotta prescrizione del reato.
Ad avviso del Collegio risulta, infatti, che "il ricorrente, avendo mantenuto il patrocinio, aveva proseguito nell'attività delittuosa tenuto conto che ove l'azione delittuosa non si sia esaurita nel compimento di un singolo atto ma abbia accompagnato attraverso il patrocinio e la domiciliazione della parte rappresentata l'iter del procedimento, si è in presenza di un unico reato il cui momento consumativo coincide con la cessazione della condotta".
Il reato di cui all'articolo 348 c.p. si configura, difatti, nella sua struttura come reato eventualmente abituale e a consumazione prolungata quando l'attività abusivamente svolta non si esaurisca in un originario e unico atto di talché il momento della consumazione del reato, ai fini della prescrizione, "deve individuarsi in quello nel quale sia cessato l'effetto tipico dell'attività abusivamente svolta e, nel caso in esame, attraverso il patrocinio in giudizio, che, secondo la ricostruzione della sentenza impugnata, non era cessato alla data dell'accertamento compiuto dal direttore di cancelleria che aveva attestato la pendenza, con il perdurante patrocinio dell'imputato, dei ricorsi e atti di citazione indicati". Sarebbe stato pertanto onere dell'imputato dimostrare la cessazione della condotta allegando documenti idonei a contrastare le indicazioni rinvenienti dalla certificazione del dirigente di cancelleria. Cosa che tuttavia non è avvenuta.

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