Esteso il diritto al silenzio ai soggetti Iva
L’amministrazione finanziaria non potrà più presumere la colpevolezza del contribuente dalla sua mancanza di risposte a domande che implichino l’ammissione di una responsabilità per un illecito sanzionabile in via amministrativa
La Corte Ue su rinvio della Consulta ha emanato il 2 febbraio un’importante sentenza in materia di sanzioni amministrative nella causa C-481/19 DB contro Consob. Oggetto dei quesiti interpretativi della Corte costituzionale erano gli articoli 47 (diritto a una tutela giurisdizionale effettiva) e 48 (presunzione di innocenza e diritti della difesa) della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CdF), in relazione alle sanzioni pecuniarie che la Consob aveva irrogato al signor DB per abuso di informazioni privilegiate e per il rifiuto di quest’ultimo di rispondere alla domande rivoltegli dai funzionari della stessa Consob nel corso dell’audizione alla quale era stato convocato.
La Consob aveva adottato i provvedimenti sanzionatori sulla base degli articoli 187.2 e 187.15 del Testo unico 58/1998 che danno attuazione agli articoli 14, 23 e 30 del regolamento Ue 596/2014 sugli abusi di mercato. La circostanza che tali norme costituissero attuazione di disposizioni di diritto europeo determinava l’applicabilità ai provvedimenti sanzionatori della Consob di tutti gli articoli della CdF ex articolo 51 della Carta stessa.
Il primo problema che la Corte Ue ha dovuto affrontare è quello della riqualificazione delle sanzioni irrogate dalla Consob che in diritto italiano sono sanzioni amministrative previste dal Testo unico 58/1998 in caso di commissione di illeciti amministrativi da parte di operatori dei mercati finanziari. Sulla base delle sue precedenti sentenze C-596/16 Di Puma e C-537/16 Garlsson, la Corte Ue ha qualificato le sanzioni al signor DB come sanzioni «di natura penale» in ragione della loro «finalità repressiva» e del loro «elevato grado di severità».
Da tale riqualificazione è conseguita l’applicabilità degli articoli 47 e 48 della CdF riguardanti i diritti degli imputati nei procedimenti penali. Fra questi rientra per la Corte anche il «diritto al silenzio», che preclude a un’amministrazione di uno Stato membro la possibilità di sanzionare il rifiuto dell’«imputato» in un procedimento sanzionatorio «di fornire risposte che potrebbero far emergere la sua responsabilità per un illecito passibile di sanzioni amministrative» (sentenza C-481/19).
Le affermazioni della sentenza C-481/19 possono essere trasposte dalle norme sanzionatorie del Testo unico 58/1998 sulla Consob, alle norme sanzionatorie di diritto italiano che completano il recepimento delle direttive Ue in materia tributaria, in primis la direttiva Iva 2006/112/CE. Questo assunto è dimostrato «al di là di ogni ragionevole dubbio» dalla circostanza che la Corte ha emanato nello stesso giorno, 20 marzo 2018, le sentenze Di Puma e Garlsson relative alle sanzioni Consob e la sentenza Menci C-524/15 riguardante le sanzioni per omesso versamento dell’Iva, facendo ampia applicazione dei principi enunciati nella più dettagliata sentenza Menci in materia di sanzioni tributarie, alle questioni aventi a oggetto le sanzioni Consob di cui alle sentenze Di Puma e Garlsson.
Le due giurisprudenze Iva e Consob vanno quindi considerate come largamente “intercambiabili”. In secondo luogo, la Corte Ue ha già chiarito che le legislazioni nazionali in materia di sanzioni tributarie nei settori disciplinati da direttive di armonizzazione fiscale costituiscono «attuazione del diritto dell’Unione» in base all’articolo 51 della Carta dei diritti fondamentali (sentenze C-617/10, punto 27 e C-189/18, punto 59).
Consegue pertanto dall’assimilazione delle sanzioni amministrative «di natura penale» a quelle penali in senso stretto operato dalla Corte che il «diritto al silenzio» riconosciuto al destinatario di sanzioni amministrative della Consob si applica anche al contribuente soggetto a un procedimento sanzionatorio in materia di Iva, con la non lieve differenza che, mentre gli operatori finanziari soggetti ai poteri di vigilanza della Consob sono solo alcune migliaia, i contribuenti Iva sono invece milioni.
Un’altra e più generale conseguenza della stessa sentenza C-481/19 è l’applicazione ai destinatari di sanzioni amministrative tributarie di tutte le ampie garanzie procedimentali assicurate agli imputati in procedimenti penali in senso stretto, sia dagli articoli 47-50 della CdF, sia dalle cinque direttive in materia di procedura penale adottate fino ad oggi dall’Ue sulla base dell’articolo 82.2 del Trattato.
La sentenza C-481/19 evoca infatti implicitamente l’articolo 7 (Diritto al silenzio e diritto di non autoincriminarsi) della direttiva 2016/343/Ue sulla presunzione di innocenza e mette d’altra parte in seria crisi l’affermazione che figura al punto 11 della direttiva stessa secondo cui le garanzie in essa previste non si applicano né ai procedimenti amministrativi sanzionatori in materia tributaria, né alle indagini svolte da autorità amministrative.
Lo stesso punto 11 della motivazione precisa tuttavia che la nozione di procedimento penale è quella «data dall’interpretazione della Corte di giustizia», la quale può quindi estendere tale medesima nozione in funzione dell’interpretazione estensiva che la stessa Corte può dare – e che ha dato nella sentenza C-481/19 – al concetto di sanzione «di natura penale».
In conclusione l’amministrazione finanziaria non potrà più presumere la colpevolezza del contribuente dalla sua mancanza di risposte a domande della stessa amministrazione che implichino l’ammissione di una sua «responsabilità per un illecito passibile di sanzioni amministrative».
Questo principio si applica tuttavia soltanto alle sanzioni Iva e non anche a quelle Irpef, tributo non armonizzato dall’Ue: un’ingiusta “discriminazione a rovescio” alla quale soltanto la Corte costituzionale può porre rimedio.