Società

Greenwashing e greenhushing: quali conseguenze giuridiche?

Sull’ambientalismo di facciata è aperto il dibattito sull’eventuale rilevanza penale della condotta

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di Barbara Pirelli*

Il greenwashing e il greenhushing possono definirsi come due fenomeni comportamentali messi in atto dalle aziende che rientrano nelle strategie di comunicazione.

Il primo fenomeno è correlato ad “ un’azione di propaganda ” dell’azienda che si proclama attenta alle tematiche ambientali e di sostenibilità; l’azienda per catalizzare l’attenzione dei consumatori esalta le caratteristiche green di un proprio prodotto con un atteggiamento poco trasparente.

Il greenwashing è in effetti conosciuto come “ l’ambientalismo di facciata ” perché alcune aziende, attraverso l’esaltazione green dei propri prodotti, in realtà vogliono coprire l’impatto ambientale negativo della propria produzione.

Il greenhushing , invece, è un atteggiamento prudente dell’azienda che rimane in silenzio, in pratica pur avendo intrapreso un percorso di ecosostenibilità l’azienda evita di parlarne, di dare risalto all’adozione di buone pratiche green per evitare di incorrere nel tanto temuto fenomeno del “greenwashing”. 

Il greenhushing è un atteggiamento adottato soprattutto da piccole realtà imprenditoriali che non essendo particolarmente strutturate dal punto di vista della formazione, della consulenza legale e strategica mantengono un profilo basso, senza esaltare la loro conversione verso la transizione ecologica.

Un’azienda che fa greenhushing , non comunicando la propria sostenibilità, limita il suo posizionamento sul mercato con il rischio di non essere scelto dai consumatori, soprattutto quelli più sensibili alle tematiche ambientali.

Entrambi i fenomeni, anche se diversi tra loro, possono incidere negativamente sulla reputazione aziendale.

Quando un’azienda viene accusata di greenwashing i danni alla reputazione e all’immagine sono considerevoli perché inevitabilmente diminuisce la fiducia dei consumatori e conseguentemente possono registrarsi perdite finanziarie, si possono subire sanzioni da parte dell’AGCM (Autorità della Concorrenza e del Mercato), si possono perdere partners e collaborazioni, si possono affrontare ingenti spese legali per difendersi in un contenzioso ecc.

Per evitare il greenwashing è opportuno che le aziende si affidino ad un team di esperti in ambito legale, della comunicazione e della sostenibilità. La comunicazione deve essere accurata e trasparente, selezionando i contenuti e le informazioni che devono sempre essere verificabili, è opportuno tenere sempre aperto un dialogo con gli stakeholder , prefissare gli obiettivi di sostenibilità che si vogliono raggiungere, rendere conoscibili le metodologie di misurazione di KPI che si vogliono adottare, comunicare i progressi realizzati ecc.

Il greenhashing è considerato un comportamento omissivo dettato dalla paura delle aziende di commettere degli errori nella comunicazione delle buone pratiche green; al momento di questo fenomeno non ci sono risvolti giuridici.

Il fenomeno del greenwashing , invece, ha delle conseguenze giuridiche: in particolare rientra nel quadro normativo della concorrenza sleale disciplinato dall’art. 2598 c.c. ; la concorrenza sleale viene contrastata con un’azione inibitoria di cui all’art. 2599 c.c. , inoltre, l’autore della concorrenza sleale può essere tenuto al risarcimento dei danni così come previsto dall’art. 2600 c.c. e ulteriore conseguenza è quella che venga ordinata la pubblicazione della sentenza.

Da qualche anno anche la giurisprudenza italiana ha cominciato ad occuparsi di greenwashing, a fare da apripista è stato un provvedimento del Tribunale di Gorizia che nel novembre 2021 ha stabilito:”la sensibilità verso i problemi ambientali è oggi molto elevata e le virtù ecologiche decantate da un’impresa o da un prodotto possono influenzare le scelte di acquisto del consumatore”.

La questione esaminata dal Tribunale di Gorizia riguardava un’azienda (produttrice di un particolare tipo di tessuto ecosostenibile ) che aveva citato in giudizio un’azienda competitor sostenendo che la stessa avesse diffuso messaggi green ingannevoli relativamente al prodotto messo in commercio.

Il giudice investito della questione ha inibito, all’azienda convenuta, con effetto immediato: ”in via diretta e indiretta, la diffusione dei messaggi pubblicitari ingannevoli”, ogni informazione non verificabile sul contenuto di materiale riciclato nel prodotto, sia nella versione in italiano che in inglese.”. 

Inoltre, è stata inibita :”la comunicazione dei messaggi ingannevoli in qualsiasi forma ed in qualsiasi contesto e sito, a mezzo internet su qualunque sito e social media, reti televisive, quotidiani e stampa, riviste, messaggi promozionali televisivi, volantini e in ogni caso veicolati con qualsiasi canale di comunicazione, online e offline, ordinando l’immediata rimozione da ogni possibile contesto dei predetti messaggi pubblicitari”.

Il giudice ha anche previsto la pena accessoria della pubblicazione dell’ordinanza di condanna sulla home page del sito internet dell’azienda convenuta.

Sul greenwashing si è aperto un dibattito sull’eventuale rilevanza penale della condotta; secondo un’interpretazione estensiva il greenwashing potrebbe anche essere inquadrato nel “ reato di frode in commercio ” di cui all’art. 515 c.p. che rientra tra i c.d. reati presupposto previsti dal d.lgs. 231/2001 , idonei a configurare la responsabilità amministrativa dell’ente in conseguenza di un reato.

In buona sostanza l’azienda che proclama un suo prodotto green al 100% e poi in realtà non lo è potrebbe incorrere in una responsabilità penale rilevante, consistente nel consegnare all’acquirente una cosa diversa da quella dichiarata in termini di qualità. Si è anche pensato che il greenwashing possa configurare il reato di truffa di cui all’art. 640 c.p. perché proclamarsi eco friendly, senza esserlo, potrebbe essere considerato un raggiro o artificio che induce in errore il consumatore o gli investitori. Questa ipotesi è meno plausibile perché attualmente il reato di truffa non rientra tra i c.d. “reato presupposto previsti dalla disciplina del D.lgs. 231/2001.

Anche il Parlamento Europeo si è mosso per tutelare i consumatori da pratiche di commercializzazione ingannevoli; è stata infatti approvata pochi giorni fa la Direttiva Europea anti greewashing con 593 voti favorevoli, 21 contrari e 14 astenuti. Le nuove regole mirano ad una pubblicità più chiara ed attendibile, non sono ammesse indicazioni ambientali generiche come: “verde, ecologico, biodegradabile, naturale, climaticamente neutro ecc.”.

L’intento dell’Unione Europea è anche quello di inserire le motivazioni, le prove che portano ad associare il prodotto ad un elemento ecologico. Si dovranno specificare schemi di certificazione approvati o stabiliti da autorità pubbliche.

Saranno anche bandite le dichiarazioni ambientali basate esclusivamente su sistemi di compensazione delle emissioni di carbonio e altre pratiche ingannevoli. Non sarà possibile fare dichiarazioni sull’intero prodotto se la dichiarazione riguarda solo una parte dello stesso, quindi, andranno indicate le esatte percentuali.

Inoltre, si darà importanza anche alla durabilità dei prodotti con informazioni più chiare sulla garanzia, responsabilizzando sia i produttori che i consumatori.

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*A cura di Barbara Pirelli, Avvocato - Legal e Sustainability Content Creator

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