Penale

I cd. "costi fissi" ed il superamento della soglia di punibilità relativamente al reato di dichiarazione infedele

Commento a Corte di Cassazione, Sezione III Penale, Sentenza 11 gennaio 2021 n. 641

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di Davide Torcello, Giovanna Bratti


La Corte Suprema di Cassazione, con la sentenza n. 641 del 9 ottobre 2020 (depositata l'11 gennaio 2021), ha affermato che, nell'ottica della configurabilità del reato di dichiarazione infedele, sia necessario tenere conto anche dei cd. "costi fissi" (espressione ritenuta "atecnica" dalla stessa Suprema Corte, e da quest'ultima tradotta come le "spese di carattere generale dell'imprenditore").

Tale considerazione, nell'intenzione del Supremo Collegio, dovrebbe, dunque, risultare votata all'accertamento dell'avvenuto superamento della soglia di punibilità; specificamente previsto, dall'art. 4 del D. Lgs. n. 74/2000, affinché possa ritenersi integrata la commissione del reato di dichiarazione infedele.

La questione rimessa alla Corte Suprema di Cassazione, di cui ci occupiamo, traeva la propria origine processuale dall'impugnazione avanzata da alcuni imprenditori milanesi; che, in precedenza, avevano patito l'inflizione, da parte della Corte d'Appello, della propria condanna.

Sinteticamente, dalla lettura della sentenza qui in commento si apprende che, tanto nel corso del primo grado di giudizio che in quello di appello, i Giudici avevano riscontrato la verificazione di un'ipotesi delittuosa di dichiarazione infedele.

Tale reato (previsto e punito dall'art. 4 del D. Lgs. n. 74/2000) sanziona chiunque, al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto, indichi, in una delle dichiarazioni annuali riferite a tali imposte, elementi attivi per un ammontare inferiore a quello effettivo; od elementi passivi inesistenti. Ciò a condizione che l'imposta evasa risulti superiore a 100.000 Euro (con riferimento a ciascheduna delle singole imposte); e che il complesso degli elementi attivi sottratti all'imposizione (anche tramite l'esposizione di elementi passivi inesistenti) si configuri quale superiore al 10% di quelli indicati in dichiarazione (o, in ogni modo risulti superiore a due milioni di euro). E' altresì previsto, ai fini della configurabilità del predetto reato tributario, che tali previsioni debbano realizzarsi congiuntamente.
Come brevemente ripercorso nella sentenza de qua, conclusosi il grado di appello del giudizio (ed alla luce della sentenza a loro sfavorevole), gli imprenditori coinvolti avevano optato per promuovere ricorso per cassazione.

Uno dei ricorrenti, pertanto, aveva dedotto "violazione di legge e mancanza e contraddittorietà della motivazione (...) della sentenza dei Giudici di appello impugnata; ciò, specificamente, "in relazione alla quantificazione della soglia di punibilità dell'imposta evasa".

Questi aveva censurato, in proposito, il fatto che, nell'opera di quantificazione dell'ammontare del fatturato della società, non fossero stati tenuti nella debita considerazione i costi sopportati nel corso delle operazioni oggetto della controversia.
A suo dire, peraltro, non sarebbe stato puntualmente considerato il contenuto di una perizia tecnica di parte; prodotta dallo stesso imprenditore nel precedente grado di giudizio.
Inoltre, la difesa del medesimo imprenditore aveva rilevato come la mancata considerazione degli accennati costi avesse prodotto una contraddizione nella motivazione della sentenza oggetto di ricorso.

L'eccezione così mossa dall'imprenditore è stata, dunque, accolta dalla Suprema Corte; che ha, in proposito, chiarito quando di seguito illustrato.

La Cassazione ha riconosciuto la mancata considerazione, da parte dei Giudici dell'appello, dei "costi fissi" sostenuti dal ricorrente (e, di conseguenza, della loro rilevanza ai fini della valutazione del superamento o meno della soglia di punibilità, previsto ex lege per l'integrazione del reato).

Tale mancata considerazione, a detta dei Giudici di legittimità, emergeva dal fatto che le relative deduzioni difensive fossero state disattese "mediante la assiomatica affermazione della impossibilità di tenere conto di "costi fissi" invece considerati dalla predetta consulenza".

Secondo la Suprema Corte, il riferimento genericamente compiuto, da parte dei Giudici dell'appello, alla natura "fissa" dei costi di cui si ragiona avrebbe, in sostanza, integrato una motivazione apparente.

Quest'ultima, in quanto tale, sarebbe risultata inidonea ad illustrare compiutamente le ragioni in forza delle quali le valutazioni mosse dal consulente tecnico non fossero state prese in esame nell'ambito di tale grado di giudizio.

In proposito, la Corte Suprema di Cassazione ha prima precisato come la Corte d'Appello avesse "verosimilmente (...) inteso, con il riferimento alla atecnica dizione di costi "fissi", indicare le spese di "carattere generale" dell'imprenditore").

Nel prosieguo, avendo i Giudici del Palazzaccio premesso che "il criterio di deducibilità dei costi non è rappresentato dalla natura "generale" o meno dei costi sopportati dal contribuente", hanno poi fatto espresso riferimento ai criteri di deducibilità e di inerenza dei costi applicabili alla luce delle indicazioni fornite dal "Testo Unico delle Imposte sui Redditi".

Nel rivolgere, pertanto, la propria attenzione a quanto disposto dell'art. 109 c. 5 del D.P.R. n. 917/1986, nella sentenza qui in commento, la Cassazione ha ricordato che il criterio di deducibilità dei costi è rappresentato dall'effettiva reperibilità (nella fattispecie concreta oggetto del giudizio) del fondamentale requisito dell'inerenza dei costi d'impresa.

A tal proposito, la Corte Suprema di Cassazione ha sottolineato che è possibile ritenere soddisfatto il requisito dell'inerenza "ogni qualvolta i costi siano riferibili a qualsiasi operazione idonea a produrre reddito".

Tale considerazione deriverebbe dal fatto che la "riferibilità" in questione "si relaziona non ai ricavi in sè, ma all'oggetto dell'impresa".

A parere di chi scrive, il pensiero dei Supremi Giudici avrebbe (forse) potuto essere espresso, sul punto, in maniera più "lineare".

Ciò anche tenendo conto di precedenti pronunce del medesimo Giudice di legittimità (tra cui, peraltro, proprio l'ordinanza n. 450/2018 nell'occasione richiamata); le quali si erano espresse nel senso che il principio dell'inerenza dei costi deducibili dovesse ricavarsi dalla nozione di reddito d'impresa - e non dall'art. 109 c. 5 TUIR, riguardante il diverso principio della correlazione tra costi deducibili e ricavi tassabili.

Giova rammentare, con specifico riguardo all'individuazione della sussistenza (o meno) del requisito dell'inerenza, che per due illustri Autori , "secondo la maggior parte della dottrina, il criterio in base al quale ripartire le spese generali deve fare riferimento alla struttura organizzativa di ciascuna impresa la quale, in presenza di una contabilità industriale, è in grado di effettuare i necessari collegamenti tra le spese e le attività svolte (...).
Con riferimento all'onere della prova dell'inerenza dei costi in sede di accertamento tributario, attraverso diversi interventi (...) la Corte di Cassazione ha confermato alcuni principi cardine tra cui: la sussistenza dell'onere della prova dell'inerenza dei costi in capo al contribuente (e ciò, anche relativamente alla coerenza economica della spesa) (...) il potere dell'Agenzia delle Entrate di valutare la congruità dei costi e ricavi dichiarati dal contribuente. Si desume così che la scelta dei mezzi di prova impiegabili è lasciata al contribuente, a condizione che se ne ricavino elementi certi e precisi, così come prevede l'art. 109, comma 4, del Tuir
".

Peraltro la Suprema Corte, nello svolgere le proprie argomentazioni, ha in questa occasione richiamato una pluralità di proprie precedenti pronunce civili.

Con riguardo, invece, a sentenze rese dal medesimo Giudice "in veste penale", può in conclusione rammentarsi quanto statuito con la sentenza n. 230/2020.

Nell'occasione la Suprema Corte, per quanto di interesse ai fini del presente contributo, aveva affermato che "è ben vero che alla ricostruzione del reddito dell'impresa nell'esercizio di competenza concorrono anche le spese e gli altri componenti negativi, ma questi devono essere certi o comunque determinabili in modo obiettivo (D.P.R. n. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 109, comma 1), non potendo essere puramente e semplicemente presunti. Sicché, ove a fronte dell'accertamento di ricavi non dichiarati l'imputato lamenti la mancata deduzione dei costi ad essi inerenti, deve provarne l'esistenza (artt. 187 e 190, c.p.p.), o comunque allegare i dati dai quali l'esistenza di tali costi poteva essere desunta e dei quali il giudice non ha tenuto conto, non essendo legittimo, nemmeno in sede penale, presumere l'esistenza di costi deducibili in assenza quantomeno di allegazioni fattuali che rendano almeno legittimo il dubbio in ordine alla loro sussistenza".

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