Professione e Mercato

I punti di contatto tra la scrittura giuridica e quella creativa

Dalla redazione dell'atto introduttivo fino alla procedura civile o penale, gli operatori del diritto si trovano spesso ad agire come storici, nella ricostruzione dei fatti, per arrivare alla cosiddetta "verità processuale"

di Emanuele Massuoli*

La redazione di un atto giudiziario e la scrittura di un romanzo sono davvero attività tanto diverse?

A mio parere, non lo sono affatto.

Non mi riferisco, ovviamente, agli atti che una volta si sarebbero definiti "da formulario", oggi facilmente reperibili nella rete web, come un precetto o un preavviso di rilascio di un immobile. Per questi, in effetti, parlare di scrittura letteraria non avrebbe alcun senso: esiste una formula e solo quella si deve utilizzare, tanto più che la normativa europea tende a uniformare questi modelli, come per esempio il Regolamento CE 1896/2006 che ha introdotto il procedimento europeo d'ingiunzione di pagamento in base a moduli standard.

Diverso è, invece, se ci si riferisce agli atti più complessi, vale a dire una citazione, una comparsa di risposta, un appello (civile o penale non fa differenza) o altri di questo genere. Forse la scrittura letteraria non è poi tanto dissimile da quella che un legale dovrebbe usare per redigere questi ultimi.

Quando il neo-dottore in giurisprudenza inizia la pratica forense, gli può capitare di dover adeguare il proprio modo di scrivere a quello burocratico, pieno di formule più o meno intoccabili e, spesso, infarcito di pesanti latinismi. Le ripetizioni del medesimo vocabolo vengono tollerate, se non addirittura apprezzate, in quanto contribuiscono a rendere non equivoca l'istanza che si presenta al giudice.

D'altra parte esistono manuali di diritto privato, quasi leggendari tante sono le generazioni di giuristi formatesi su di essi, che appaiono talmente indigesti da risultare quasi illeggibili per gli arcaismi che utilizzano.

Con un simile background culturale, non si potranno certo biasimare i colleghi che si vorranno adeguare a tali modalità di scrittura, anche perché spesso le stringenti esigenze di tutela del cliente, nonché i tempi contratti nei quali si deve agire, inducono, o sarebbe meglio dire obbligano, a chiudere entrambi gli occhi sulla forma per concentrarsi sulla sostanza.

Esiste, però, un minimo etico sotto il quale non si dovrebbe mai scendere. Per questa ragione, sarebbe opportuno porre una crescente attenzione nel rendere sempre più chiara e lineare la propria scrittura, sia nelle narrazioni in fatto sia nelle argomentazioni in punto di diritto.

Sono consapevole che, se il nostro patrocinato ha torto, non sarà certo una bella esposizione del caso a fargli vincere la causa. Tuttavia, qualche benefico effetto potrebbe comunque averlo. Di certo, un atto scritto male o assurdamente pomposo non può che indispettire il giudice.

Per ottenere la massima chiarezza narrativa, andrebbero quasi del tutto eliminati i latinismi inutili, con la sola eccezione di quelli che consentano di esprimere con una stringata locuzione un concetto che in lingua italiana sarebbe meno immediato. Lo stesso vale per gli arcaismi e le perifrasi: meno ce ne sono, meglio è.
Oltre al valore estetico dell'atto - che può incidere magari anche solo per facilitare una possibile parziale compensazione delle spese di lite - esiste, a mio parere, anche un altro importante punto di contatto tra la scrittura giuridica e quella creativa.

Si tratta di quella che definisco "storicizzazione". Non è un'idea nuova quella che gli operatori del diritto (nello specifico i giudici, ma non vi è motivo per non accomunare in questo anche gli avvocati) debbano operare come storici, nella ricostruzione dei fatti, per arrivare alla cosiddetta "verità processuale".

Credo, però, che questa impostazione possa essere ampliata fino a comprendere ogni aspetto della professione legale, dalla redazione dell'atto introduttivo fino alla stessa procedura civile o penale, che altro non è che un susseguirsi di atti concatenati tra loro.

Molte delle difficoltà che è possibile riscontrare nei praticanti avvocati (specie ormai definita da qualcuno "in via di estinzione", con conseguenze imprevedibili nel medio periodo sulla qualità effettiva della difesa processuale dei nuovi legali) e, più in generale, nei candidati che si presentano all'esame di abilitazione alla professione, sparirebbero se nella mente di costoro si facesse largo il semplice concetto che a ogni atto che si notifica o si deposita deve necessariamente fare seguito un altro atto, o comportamento, che deve essere posto in essere da qualcuno: il più delle volte da noi stessi o dal giudice, in altre occasioni dal cancelliere o dall'ufficiale giudiziario. Questa, in tutta evidenza, è nient'altro che una forma di storicizzazione.

Altrettanto può dirsi della redazione di un atto in cui debba essere ricostruita la versione della vicenda offerta dal nostro cliente, per esempio una citazione (ma non dissimili argomenti valgono per la comparsa di costituzione o per quella conclusionale, o per un appello civile o penale): l'esposizione in fatto è essa stessa "storia", o almeno deve esserlo quanto più possibile per apparire credibile.

Anche l'esposizione in punto di diritto, però, non risponde a regole diverse: gli argomenti da trattare non devono essere semplicemente giustapposti ma devono seguire un filo logico che permetta a chi legge di non perdersi nei meandri delle nostre elucubrazioni, ma al contrario possa facilmente intendere cosa vogliamo esprimere.

Mi conforta che argomenti analoghi vengano espressi da autorevoli interpreti del diritto [1] nonché trovino affermazione nel Protocollo d'intesa tra il Consiglio Superiore della Magistratura e il Consiglio Nazionale Forense del 19 luglio 2018, dal significativo titolo "Scrutinio preliminare delle impugnazioni, organizzazione del lavoro, chiarezza e sinteticità nella redazione degli atti e dei provvedimenti nei giudizi d'appello".

La singolare curiosità è che, parallelamente, anche nel mondo editoriale esiste un problema analogo, tanto che si assiste a una proliferazione di "scuole" e "corsi" di scrittura creativa. A me sembra surreale che un aspirante scrittore non sappia scrivere e abbia bisogno di seguire un corso specifico. Attraverso lo studio si possono senz'altro affinare le proprie doti, ma credo che si possa chiosare come segue: un tema di liceo, un parere motivato per l'esame da avvocato, un atto di citazione o un romanzo sono tutte espressioni del medesimo modo di scrivere, improntato a sinteticità e chiarezza.

Se qualcuno ritiene che la scrittura letteraria esca ridimensionata da una simile impostazione, evidentemente non ha mai letto Voltaire.

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*A cura di Emanuele Massuoli, Avvocato e scrittore

[1] cfr. l'articolo di Luigi Rosario Luongo del 9 ottobre 2021, Il "principio" di sinteticità chiarezza degli atti di parte e il diritto di accesso al giudice (anche alla luce dell'art. 1, co. 17 lette. D ed e, d.d.l. 1662), in www.judicium.it

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