Società

Il buco nero dei fallimenti: tempi biblici, recuperi mini

Il calo delle procedure nel 2020 non ha ridotto di molto la durata media, che supera i sette anni. Banca d’Italia teme l’aumento delle insolvenze e delle durate nei prossimi mesi

ADOBESTOCK

di Valentina Maglione e Bianca Lucia Mazzei

I fallimenti in Italia restano lunghissimi: nel 2020 la durata media è stata di oltre sette anni, nonostante le nuove procedure siano calate di un terzo. E nel 2021 potrebbe crescere, per il venir meno dei fattori che hanno contenuto le ripercussioni della crisi economica sulla sopravvivenza delle imprese.

L’anno scorso gli aiuti governativi e il blocco da marzo a giugno dei fallimenti hanno congelato le crisi che, secondo gli operatori, potrebbero esplodere quest’anno. Ma l’aumento delle procedure rischia di ingolfare ulteriormente i tribunali, con ricadute negative sul sistema economico e sulla stabilità finanziaria. I tempi lunghi non aiutano infatti il recupero dei crediti che in Italia, secondo i dati elaborati dall’Eba (l’Autorità bancaria europea), è al di sotto della media Ue, sia come percentuali che come tempi di attesa.

Una situazione grave che ha indotto il presidente del Consiglio, Mario Draghi, a indicare la riforma della gestione delle crisi d’impresa fra gli obiettivi principali del Governo e per l’uso del Recovery fund.

Il quadro
Che sia necessario intervenire per riportare i tempi dei fallimenti entro i confini di una «ragionevole durata» lo dicono i dati. Le procedure fallimentari in Italia durano infatti in media sette anni, secondo i dati nel ministero della Giustizia, con una forbice notevole tra le diverse sedi: nel distretto di Corte d’appello di Messina nel 2019 si sono registrati 17 anni di media, mentre in quello di Trento meno di cinque. Comunque, più della media dei europea: secondo il report dell’Eba , i tempi per recuperare le somme nell’Europa a 27 si aggirano sui tre anni.

Il ritardo italiano viene da lontano. Anzi, negli ultimi anni, i tempi sono andati lievemente migliorando: a fronte dei quasi otto anni del 2014 si è passati a sette anni e mezzo nel 2019. Il 2020, poi, è stato un anno particolare: le procedure di fallimento, secondo i dati Cerved, sono scese di circa un terzo rispetto al 2019 (le durate medie, in base ai dati al 30 settembre, sono poco sopra i sette anni). Le cause, secondo un’analisi della Banca d’Italia, sarebbero due: da un lato, la moratoria sui fallimenti e il rallentamento dell’attività dei tribunali, dall’altro le misure di sostegno economico che avrebbero tenuto in vita alcune imprese già in crisi prima del Covid. Di qui l’allarme di Bankitalia sul possibile picco di insolvenze nei prossimi mesi, che potrebbe allungare ancora i tempi. Lo stesso Governatore, Ignazio Visco, nella conferenza stampa al G20 dei ministri delle finanze e governatori, ha paventato rischi sul piano dell’insolvenza delle imprese.

Ma perché i fallimenti in Italia durano così tanto? La risposta è in un mix di fattori: regole procedurali complicate, difficoltà di escutere i debitori che arrivano all’insolvenza decotti e con poco in cassa da spartire, aste per vendere i beni che a volte richiedono anni, ritardi nei pagamenti della Pa.

Il recupero dei crediti
Per i creditori, la misura dell’efficienza della gestione delle crisi d’impresa sono i tempi e l’ammontare delle somme recuperate. In entrambi i casi l’Italia è agli ultimi posti in Europa. Secondo l’Eba nel nostro Paese il tasso netto di recupero dei crediti per le aziende è del 17-19%, neanche la metà della media Ue del 40 per cento.

Per uscire dal cortocircuito di recuperi bassi e tempi lunghi, la riforma disegnata dal Codice della crisi punta soprattutto sull’emersione anticipata delle difficoltà: grazie al sistema dell’allerta nei casi in cui la crisi non fosse risovibile, l’impresa verrebbe subito avviata al fallimento e non quando, dopo anni di prosecuzione in perdita ed erosione del capitale, non c’è più nulla da ripartire. Ma questo meccanismo pensato prima della crisi rischia, oggi, di far scattare un numero eccessivo di allerte, con conseguenze opposte a quelle sperate. È la ragione per cui l’entrata in vigore del Codice, oggi fissata al 1° settembre, potrebbe slittare di nuovo.

«L’allerta va rivista e resa più soft - dice Andrea Foschi, membro del Consiglio nazionale dei commercialisti delegato alla crisi d’impresa -. Bisogna modificare le norme per tener conto della crisi e favorire il salvataggio delle aziende». «Per evitare che l’esplosione delle insolvenze intasi i tribunali - aggiunge Antonio Maria Leozappa, presidente dell’associazione curatori fallimentari - andrebbero elevati i requisiti per il fallimento. Favorire il ricorso all’amministrazione straordinaria e semplificare il concordato preventivo aiuterebbe le aziende recuperabili» .

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