Lavoro

Il dipendente comunale non può gestire l'azienda agricola

Per la Cassazione, sentenza n. 27420 depositata il 1 dicembre, la norma sulle incompatibilità va interpretata in chiave attuale

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di Francesco Machina Grifeo

Non si può essere allo stesso tempo dipendenti pubblici e imprenditori agricoli. Anche se l'azienda è di "modeste dimensioni". La doccia fredda sul sogno del "posto fisso" accoppiato alla cura di un piccolo appezzamento di terra arriva dalla Corte di cassazione con la sentenza n. 27420 depositata il 1 dicembre. I giudici hanno infatti respinto la richiesta di pagamento delle differenze retributive da parte di un dipendente di un comune sardo che aveva chiesto senza ottenerla la reintegra nel tempio pieno negli anni in cui gestiva un'azienda agricola.

Anche se l'attività agricola non è espressamente menzionata tra le attività incompatibili indicate dall'articolo 60 del Dpr n. 3/1957, il divieto di esercitare "il commercio, l'industria, né alcuna professione" - chiarisce la Suprema corte - va interpretato "in un senso più aderente alla realtà attuale", e allora non può che intendersi riferito anche alla impresa agricola. Si deve infatti tenere conto, prosegue la decisione prendendo un respiro storico, "di quella che era la struttura economico-sociale del Paese negli anni ‘50", quando cioè fu emanata la norma. All'epoca "quasi ogni famiglia, a vario titolo - prosegue la decisione -, era implicata nell'agricoltura, sicché se tale attività fosse stata inserita tra quelle incompatibili ne sarebbe derivata l'esclusione dall'impiego statale della maggior parte dei cittadini".

Ma "soprattutto" si deve tener conto dell'"evoluzione dell'attività agricola" operata con la legge 153 del '75 che, in attuazione della direttiva Ue, ha ancorato la qualifica di imprenditore agricolo a rigidi paletti (2/3 del tempo e del reddito prodotto dal lavoro), e l'ha inquadrata nelle forme societari esistenti. Restano in piedi specifiche deroghe come quella accordata ai dipendenti in part time (entro il 50%).

Quello che rileva, continua la decisione, "non è la remunerazione che il dipendente ottenga da un'attività esterna ma la sussistenza di un centro di interessi alternativo all'ufficio pubblico rivestito implicante un 'attività che, in quanto caratterizzata da intensità, continuità e professionalità, pregiudicando il rispetto del dovere di esclusività, potrebbe turbare la regolarità del servizio o attenuare l'indipendenza de lavoratore pubblico e conseguentemente il prestigio della P.A.".

La ratio del divieto che, dunque, permane anche nel lavoro pubblico privatizzato, è, infatti, da ricercare nel principio costituzionale di esclusività della prestazione lavorativa a favore del datore di lavoro pubblico. Un principio che trova il proprio fondamento costituzionale nell'art. 98 Cost. con il quale i nostri Costituenti, nel prevedere che "i pubblici impiegati sono a servizio esclusivo della Nazione" hanno voluto rafforzare il principio di imparzialità di cui all'art. 97 Cost., sottraendo tutti coloro che svolgono un'attività lavorativa "alle dipendenze" - in senso lato - delle Pubbliche Amministrazioni dai condizionamenti che potrebbero derivare dall'esercizio di altre attività".

"Se il criterio guida è, dunque - conclude la decisione -, l'interferenza sull'attività ordinaria del dipendente, anche la partecipazione in imprese agricole è da ritenere incompatibile con un rapporto di lavoro a tempo pieno laddove sussistano gli indicati caratteri della abitualità e professionalità, caratteri che la forma societaria prescelta fa indubbiamente presumere".

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