Comunitario e Internazionale

Il divieto di indossare segni religiosi, filosofici o spirituali in azienda è legittimo se applicato in via generalizzata

Va verificato però se nel caso concreto l'impresa di fatto discrimini indirettamente solo una certa fede o credenza personale

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di Paola Rossi

Per la Corte Ue, in via generale, va affermato che se l'imprenditore pone un divieto generalizzato e indiscriminato ai propri dipendenti di indossare o esporre in modo visibile segni religiosi, filosofici o spirituali sul luogo di lavoro non c'è illegittima discriminazione diretta verso il lavoratore che insista per abbigliarsi in maniera corrispondente alla propria credenza religiosa. Come, nel caso specifico, in cui una donna di fede musulmana chiedeva di essere ammessa a un tirocinio, ma non intendeva venir meno alla propria regola religiosa di indossare il velo o almeno un copricapo. Secondo la Cgue, la religione e le convinzioni personali devono essere considerate "un solo e unico motivo di discriminazione", altrimenti pregiudicando il quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro come previsto dalla direttiva 2000/78. Questo emerge dalla decisione sulla causa C-344/20 relativa una vicenda accaduta in Belgio.

La vicenda a quo
Il giudizio a quo del rinvio pregiudiziale è quello che vede contrapposta una donna di fede musulmana usa a indossare il velo islamico e la una società che gestisce alloggi popolari in Belgio. La lite verteva sulla mancata presa in considerazione della candidatura spontanea a un tirocinio presentata dalla donna. Infatti, durante il colloquio, ella aveva precisato che si sarebbe rifiutata di togliersi il velo per conformarsi alla politica di neutralità promossa all'interno dell'impresa tramite proprio regolamento interno applicabile indistintamente a tutti i dipendenti. Il mancato accordo tra la candidata al tirocinio e l'imprenditore permaneva anche quando, in seconda battuta, la donna riproponeva la propria domanda dichiarandosi disposta a indossare un altro tipo di copricapo. Proposta rifiutata dall'impresa che non consentiva l'uso di cappelli, berretti o veli al fine di coprire la capigliatura. Da ciò la segnalazione della donna all'ente pubblico indipendente competente per la lotta contro la discriminazione in Belgio e poi il ricorso davanti al tribunale del Lavoro affinché inibisse la decisione dell'impresa.

Ella affermava che la mancata conclusione del contratto di tirocinio sarebbe stata fondata direttamente o indirettamente sulle sue convinzioni religiose, e quindi discriminatoria in via diretta.

Il rinvio pregiudiziale
Il giudice del lavoro belga ha perciò domandato alla Corte Ue se i termini «la religione o le convinzioni personali» presenti nella direttiva riguardante la parità di trattamento in materia di impiego e di condizioni di lavoro debbano essere interpretati come due aspetti di uno stesso criterio protetto o, al contrario, come due criteri distinti. E se il divieto di portare un segno o un indumento "connotato" nel regolamento di lavoro dell'impresa costituisca una discriminazione diretta basata sulla religione.

La decisione
La Corte risponde partendo dal dato che l'articolo 1 della direttiva 2000/78 intende per «religione o convinzioni personali» un solo e unico motivo di discriminazione relativo a tutte le convinzioni religiose, filosofiche e spirituali.
Inoltre, precisa la Cgue che il motivo di discriminazione fondato sulla «religione o le convinzioni personali» vada inteso come distinto dalla discriminazione per motivi attinente alle «opinioni politiche o qualsiasi altra opinione».
La Corte precisa poi che è legittima - a condizione che sia applicata in maniera generalizzata e indiscriminata - una disposizione di un regolamento di lavoro di un'impresa che vieti ai dipendenti di manifestare verbalmente, con l'abbigliamento o in qualsiasi altro modo, le loro convinzioni religiose o filosofiche, di qualsiasi tipo. E non costituisce, verso coloro che intendono invece esercitare la propria libertà di religione e di coscienza e indossare visibilmente un segno o un indumento con connotazione religiosa, una discriminazione diretta «basata sulla religione o sulle convinzioni personali».

La motivazione
Infatti, dice la Corte, poiché ogni persona può avere una religione o convinzioni religiose, filosofiche o spirituali, una regola di tal genere, a condizione che sia applicata a tutti indistintamente non crea e una differenza di trattamento fondata su un criterio inscindibilmente legato alla religione o a tali convinzioni personali. Al limite può rappresentare una differenza di trattamento "indiretta" fondata sulla religione o sulle convinzioni personali se - nel concreto - viene dimostrato che l'obbligo apparentemente neutro colpisce di fatto soggetti individuabili da una data fede o credenza.
Infine, la Corte conclude che anche in una tale situazione di indiretta discriminazione la differenza di trattamento non sarebbe illegittima se giustificata oggettivamente dal conseguimento di finalità giustificatrici che vanno però dimostrate dal datore di lavoro. La valutazione dell'esistenza di una giustificazione a una discriminazione indiretta comporta che il giudice nazionale riconosca, nell'ambito del bilanciamento degli interessi divergenti, una maggiore importanza a quelli della religione o delle convinzioni personali rispetto a quelli risultanti, in particolare, dalla libertà d'impresa, o viceversa.

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