Civile

Il praticante avvocato perde il compenso se patrocina davanti all'organo collegiale

Lo ha chiarito la Corte di cassazione, con la sentenza n. 20108 depositata oggi, affermando anche che il danno per l'illegittimo patrocino è da dimostrare

di Francesco Machina Grifeo

Il praticante avvocato che, contrariamente a quanto previsto dalla legge, assista il proprio cliente anche di fronte a un organo collegiale non ha diritto al relativo compenso. Tuttavia, tale attività non inficia l'intero mandato professionale, per cui egli ha comunque diritto al pagamento per l'attività legittimamente svolta, nella misura della metà di quanto previsto per un avvocato regolarmente iscritto all'albo. La parte infine non può pretendere un risarcimento per il solo fatto di essere stata assistita da un soggetto non abilitato senza dimostrare il danno subito. Lo ha chiarito la Corte di cassazione, con la sentenza n. 20108 depositata oggi, relativamente al caso di un uomo sotto processo per sostituzione di persona.

A seguito di un decreto ingiuntivo per 2.326 euro, a titolo di compenso professionale per l'attività svolta nel procedimento penale, il cliente di un ex praticante avvocato aveva proposto appello al Tribunale di Salerno contro la decisione del Giudice di pace che aveva accolto solo parzialmente la sua opposizione, riducendo il dovuto a 618 euro. La revoca del decreto era stata chiesta sul presupposto che all'epoca il legale non era iscritta nell'albo degli avvocati, ma solo in quello dei praticanti avvocati, ragion per cui non era abilitata al patrocinio dinanzi agli organi giurisdizionali collegiali. Nonostante ciò aveva patrocinato davanti al Tribunale del riesame, ragion per cui "si sarebbe dovuta ritenere la nullità di tutta la prestazione professionale dalla stessa svolta".

Secondo il giudice di secondo grado, l'allora praticante era abilitato a svolgere la prima fase della difesa, potendo, ai sensi dell'art. 7 della legge n. 479/1999, assumere l'incarico riguardante i procedimenti relativi ai "reati per i quali la legge stabilisce una pena detentiva non superiore nel massimo a quattro anni ovvero una pena pecuniaria sola o congiunta alla predetta pena detentiva", e aveva così liquidato il dovuto sulla base delle attività legittimamente compiute applicando il valore medio delle tariffe di cui al Dm n. 127 del 2004.

La Suprema corte ha confermato questa lettura. Se infatti è "pacifica" la sussistenza della "nullità assoluta ed insanabile" della costituzione del contratto di opera professionale stipulato "tra un cliente ed un professionista legale non abilitato", nella fattispecie, il Tribunale ha rilevato che il praticante aveva legittimamente ricevuto l'incarico "poiché … si procedeva in sede penale in relazione al reato di cui all'art. 494 c.p., la cui pena era ricompresa nei limiti edittali previsti dall'art. 550 c.p.p.".

"Da ciò consegue - continua il ragionamento - che il contratto in questione non poteva considerarsi affetto da nullità assoluta ‘ab origine' ma che lo fosse diventato parzialmente solo limitatamente all'attività poi espletata dalla professionista legale dinanzi al Tribunale del riesame, in quanto organo giurisdizionale collegiale". Il giudice di appello, prosegue il ragionamento, ha dunque correttamente riconosciuto i compensi all'allora praticante avv. "per la sola attività professionale svolta legittimamente nei limiti di cui al citato art. 7 della legge n. 479/1999, cioè quella relativa al procedimento penale instaurato a carico per un reato di competenza del Tribunale monocratico (da cui anche la mancata configurabilità per tale fase del reato di esercizio abusivo della professione), nel mentre sarebbe potuta intervenire dinanzi al Tribunale (del riesame) collegiale solo quale sostituto di avvocato abilitato e non in proprio, quale praticante avvocato non abilitato (Cass. n. 3676/2021)".

È invece fondato il secondo motivo di ricorso. Il Giudice di appello infatti ha liquidato i compensi applicando il valore medio delle tariffe del Dm 127/2004 in ordine allo scaglione dell'attività svolta dinanzi al G.I.P. "Senonché – prosegue la decisione - , il ricorrente, a confutazione di questo criterio di liquidazione, ha contrapposto che, nel caso di specie, avrebbe dovuto trovare applicazione - per la fase espletata dinanzi al GIP - l'art. 7 del cap. II del D.M. n. 127/2004 (temporalmente vigente), contemplante la spettanza ai praticanti avvocati abilitati in sede penale degli onorari nella misura della metà rispetto a quelli da riconoscersi in favore degli avvocati abilitati".

Pertanto, conclude la Cassazione sul punto, il Tribunale "non avrebbe potuto quantificare i compensi spettanti all'allora praticante avv. (per la fase in cui la stessa era abilitata all'attività difensiva svolta dinanzi al GIP) applicando il valore medio delle tariffe di cui al citato D.M. (liquidandoli nell'importo di euro 572,82, in luogo della somma effettivamente spettante di euro 208,26, come analiticamente e correttamente determinata, in relazione alla singole voci legittimamente riconoscibili)".

Né la parte può pretendere il diritto al risarcimento del danno senza darne prova, "posto che non era rimasto dimostrato come, per effetto della prestazione professionale resa dalla praticante, egli avesse risentito di un pregiudizio in concreto e che, anzi, la difesa espletata dinanzi al Tribunale del riesame aveva consentito allo stesso odierno ricorrente, in accoglimento dell'impugnazione, la restituzione dell'abbonamento e della tessera sanitaria sequestrata (attraverso il cui utilizzo era stato consumato — secondo l'imputazione contestata — il reato di sostituzione di persona)".

Tantomeno, conclude la Corte, eventuali profili deontologici possono venire in rilievo rispetto ad una eventuale responsabilità contrattuale.

Per saperne di piùRiproduzione riservata ©