Penale

Il reato di sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte e le soglie di punibilità (art. 11 D.Lgs. 74/00)

Rispondono alla definizione di "atti fraudolenti" anche le operazioni bancarie benché tracciabili e ricostruibili. Per la determinazione dell'eventuale superamento della soglia di punibilità deve farsi riferimento non alla singola annualità bensì all'intero periodo di attuazione del disegno criminoso.

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di Enzo Gambararo*

Il reato di sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte così come disciplinato dall'articolo 11 primo comma del D.Lgs. 74/00 non rappresenta per l'ordinamento penal-tributario una assoluta novità.

L'interesse dell'erario a riscuotere i tributi accertati ed i relativi accessori trovava una tutela penale nell'articolo 97 sesto comma del Dpr 602/1973 che sanzionava il contribuente che, iniziata l'attività del Fisco prodromica all'incasso delle imposte, cioè accessi, ispezioni, verifiche, inviti e richieste rivolti al contribuente ai sensi di leggi vigenti, o ancora dopo la notifica di avvisi di accertamento o di iscrizioni a ruolo, si rendeva protagonista di atti fraudolenti sui propri beni rendendo inefficace la riscossione coattiva.

Una simile prospettazione della condotta rilevante penalmente, di fatto molto stringente, ha determinato nel tempo di vigenza scarsi risultati pratici al punto che pochissimi sono gli interventi giurisprudenziali intervenuti in oltre venticinque anni. In effetti la circostanza che l'intervento penale fosse riservato, da un lato, a quegli atti dispositivi compiuti in epoca successiva all'inizio delle attività, per così dire, recuperatorie del Fisco e, dall'altro, che la condotta fraudolenta avesse in concreto cagionato un danno all'erario rendendogli inefficace la procedura coattiva di incasso, ha reso sostanzialmente inapplicata la norma.

Ecco che allora il legislatore è intervenuto riformulando la fattispecie ampliando, in tal modo, le ipotesi rilevanti penalmente con l'arretramento del momento in cui la condotta può ritenersi punibile. Non è, infatti, più prevista la necessità che la condotta intervenga in epoca successiva all'inizio dell'attività accertativa ed inoltre non è più richiesto che essa abbia determinato un danno effettivo all'erario essendo sufficiente la sua idoneità a rendere inefficace la procedura esecutiva.

Sotto quest'ultimo profilo la riforma del 2000 ha trasformato quello in commento da reato di danno in reato di pericolo per la cui ricorrenza è sufficiente, con un giudizio ex ante, cioè che valuti la condotta al momento nel quale questa è stata posta in essere, che la sottrazione patrimoniale abbia messo in pericolo l'efficacia della procedura esecutiva.

La qualifica richiesta all'agente è quella di contribuente del fisco obbligato al pagamento delle imposte che rende quello in commento un reato proprio e ciò nonostante il pronome "chiunque" adottato dal legislatore che, nella fattispecie, non può che essere riferito ai soggetti che agiscono nella qualità di amministratori, liquidatori o rappresentanti a vario titolo di società e enti aventi la qualità di contribuenti per l'Amministrazione finanziaria.

Tale circostanza deve desumersi dall'elemento soggettivo richiesto dalla norma che è, per l'appunto, il dolo specifico di sottrarsi all'obbligazione tributaria maturata, dovere che non può che gravare sul contribuente.

La qualificazione dell'agente non esclude, tuttavia, che del delitto possa essere chiamato a rispondere anche l'extraneus sempreché questi, oltre a costituire inevitabilmente il secondo protagonista della condotta delittuosa, abbia la consapevolezza della fraudolenza dell'attività messa in campo dal contribuente finalizzata a sottrarsi al pagamento delle imposte.

Entrando nel merito della condotta, quella inquadrata dalla norma è di tipo commissivo che ha come oggetto esclusivamente i beni dell'agente, o dell'ente da questi rappresentato, essendo escluse tutte quelle rientranti nell'alveo delle condotte di natura elusiva. In questo ambito il legislatore della riforma ha affiancato alla generica locuzione "atti fraudolenti" inserita nell'articolo 97 Dpr 602/1973, sostanzialmente confermata nell'articolo 11 D.Lgs. 74/00, una ulteriore riconducibile a "atti simulati" (…aliena simulatamente…).

Dunque, l'attuale formulazione della norma prevede due ipotesi comportamentali, alternative tra loro, penalmente rilevanti. La prima fa riferimento a atti dispositivi simulati, cioè privi di coerenza tra volontà dichiarata e volontà effettiva, con cui, quindi, si tende a far apparire il trasferimento della proprietà di un bene, sia a titolo di vendita che di donazione o permuta, senza tuttavia che il cedente ne perda la disponibilità.

Se ne deduce che sono evidentemente da escludere dal novero di quelle punibili, le condotte consistenti in una alienazione effettiva in cui, cioè, vi sia congruità tra volontà dichiarata e volontà effettiva, ancorché possa risultarne pregiudicata la procedura esecutiva.

L'ampia formula adottata dal legislatore per descrivere la seconda fattispecie delittuosa (…il compimento di altri atti fraudolenti) rende meno agevole l'individuazione della condotta da sottoporre a punizione ingenerando un concreto rischio di indeterminatezza.

Un orientamento giurisprudenziale reso in ambito cautelare, confermato da una recente sentenza (Cass.Pen. III Sezione sentenza 16/4/2021 n. 16686), tende a baipassare il concetto di fraudolenza a beneficio del connotato di idoneità dell'atto a determinare un fittizio depauperamento del patrimonio del contribuente.

Secondo tale impostazione il concetto di altri atti fraudolenti deve essere letto in un'ottica di omogeneità sistematica, in correlazione con la nozione di alienazione simulata. Dunque la norma non può che riferirsi ad atti che, al pari di quelli simulati, offrono la rappresentazione artificiosa, ingannatoria o menzognera di una situazione differente da quella effettiva.

Rientrerebbero in tale alveo ad esempio i contratti di affitto o di cessione d'azienda, di cessione di crediti, le operazioni societarie straordinarie, gli atti di riconoscimento di passività, cioè quegli atti che, facendo leva su strumenti giuridici perfettamente legittimi, per il tramite di un utilizzo abusivo finalizzato a farli rientrare nella fisiologica vita aziendale, sono, contrariamente, destinati a sottrarre parte o tutta la garanzia patrimoniale del contribuente alla procedura di riscossione coattiva.

Nella descritta prospettazione la Cassazione ha precisato che la nozione di fraudolenza dell'atto non va confusa con la sua illiceità, ricorrendo essa anche in presenza di un atto formalmente lecito e, come tale, potenzialmente non punibile.

Gli ermellini hanno, infatti, affrontato un caso in cui la diminuzione del patrimonio del contribuente finalizzata a rendere inefficace la procedura di riscossione coattiva si era determinata in conseguenza di una serie di prelevamenti bancari, atti formalmente esenti da censura, eseguiti a beneficio del medesimo soggetto a cui è stata ricondotta la paternità del programma fraudolento.

In buona sostanza la Cassazione ha precisato che le suddette operazioni di prelevamento dai conti correnti bancari, pur esse rintracciabili e ricostruibili come in effetti avvenuto nel caso sottoposto al vaglio, debbono essere considerate atti fraudolenti nel senso richiamato dalla norma in quanto costituenti parti integranti di un meccanismo considerato fraudolento nel suo complesso.

Inoltre, nella sezione conclusiva della medesima pronuncia, la Suprema Corte ha sottolineato, senza peraltro scuotere gli operatori della materia, il criterio da seguire per la verifica del superamento della soglia di punibilità prevista dall'articolo 11 D.Lgs. 74/00.

Per l'incriminazione dell'agente la norma prevede, infatti, l'ulteriore condizione rappresentata dall'esistenza, al tempo del compimento della condotta, di un debito tributario per imposte (sui redditi e Iva) e relativi accessori, questi ultimi da computarsi esclusivamente dopo la loro irrogazione da parte degli uffici finanziari, di oltre 50 mila euro (soglia fissata dal D.L. n. 78/2010 convertito nella Legge n. 122/2010).

Il legislatore della riforma se da, un lato, ha, come visto, previsto un ampliamento delle condotte punite, dall'altro, ha aumentato la soglia di punibilità di cui all'articolo 97 Dpr 602/1973 di 10 milioni di lire, con ciò creando una condizione di limitazione dell'intervento sanzionatorio alle condotte che cagionano un danno rilevante al Fisco.

A differenza di altre previste e punite dal D.Lgs. 74/00, la fattispecie disciplinata dall'articolo 11 non richiede che la soglia di punibilità sia rapportata per singola annualità. E ciò proprio per la ragione posta a base dell'incriminazione che coincide con la tutela della garanzia patrimoniale offerta al Fisco all'epoca del compimento della condotta simulata o fraudolenta, a nulla rilevando se il debito tributario si sia creato in una o più annualità.

*A cura di Enzo Gambararo, Dottore commercialista, esperto in diritto penale commerciale e tributario, membro del Comitato Scientifico Nazionale della School University Foundation

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