Penale

Impianti strategici, possibili deroghe a norme su salute e ambiente solo se provvisorie

La Corte costituzionale, sentenza n. 105 depositata oggi, con riguardo al cd “Decreto Priolo”, ha affermato che una disciplina derogatoria, in relazione ad attività produttive di interesse strategico nazionale, è costituzionalmente legittima solo se non supera i 36 mesi

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di Francesco Machina Grifeo

Misure governative che impongono la prosecuzione di attività produttive di rilievo strategico per l’economia nazionale o la salvaguardia dei livelli occupazionali, nonostante il sequestro degli impianti ordinato dall’autorità giudiziaria, sono costituzionalmente legittime soltanto per il tempo strettamente necessario per portare a compimento gli indispensabili interventi di risanamento ambientale.

Lo ha stabilito la Corte costituzionale nella sentenza n.105, depositata oggi , dichiarando l’illegittimità costituzionale dell’articolo 104-bis, comma 1-bis.1, quinto periodo, delle Norme di attuazione del codice di procedura penale, come introdotto dal cd “Decreto Priolo” (art. 6 del Dl 5 2/2023, Misure urgenti per impianti di interesse strategico nazionale, convertito, con modificazioni, nella legge 3n. 17/2023) nella parte in cui non prevede che le misure ivi indicate si applichino per un periodo di tempo non superiore a trentasei mesi.

La questione esaminata dalla Consulta è stata sollevata dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Siracusa nell’ambito di un procedimento relativo al sequestro degli impianti di depurazione di Priolo Gargallo, che a sua volta si iscrive in una più ampia indagine per disastro ambientale, ipotizzato a carico di varie aziende petrolchimiche operanti nella zona.

La questione concerneva una norma contenuta nel decreto-legge n. 2 del 2023, che autorizza il Governo, in caso di sequestro di impianti necessari ad assicurare la continuità produttiva di stabilimenti di interesse strategico nazionale, ad adottare “misure di bilanciamento” che consentano di salvaguardare la salute e l’ambiente senza sacrificare gli interessi economici nazionale e la salvaguardia dell’occupazione.

Secondo il Gip di Siracusa che aveva disposto il sequestro degli impianti di depurazione, questo schema normativo non garantirebbe adeguata tutela alla vita, alla salute umana e all’ambiente, vincolandolo ad autorizzare la prosecuzione dell’attività anche quando, a suo giudizio, le misure adottate risultino insufficienti rispetto alle esigenze di tutela di questi interessi.

La Corte costituzionale ha anzitutto osservato che una lettura attenta della normativa sottoposta al suo esame conferma che, una volta che siano state adottate le misure in questione, il giudice che ha disposto il sequestro è tenuto ad autorizzare la prosecuzione dell’attività degli impianti, senza poter rimettere in discussione le scelte del Governo.

Nel vagliare la legittimità costituzionale di questo meccanismo, la Corte ha ricordato che la recente riforma costituzionale del 2022 ha attribuito espresso e autonomo rilievo, nel nuovo testo dell’articolo 9, alla tutela dell’ambiente, della biodiversità e degli ecosistemi, anche nell’interesse delle future generazioni. Inoltre, la riforma ha esplicitamente chiarito che la tutela della salute e dell’ambiente costituisce un limite alla stessa libertà di iniziativa economica.

Tenendo conto di queste indicazioni del legislatore costituzionale, da un lato la Corte ha ritenuto non incompatibile con la Costituzione la previsione della possibilità per il Governo di dettare direttamente, in una situazione di crisi e in via provvisoria, misure conformi alla legislazione vigente, che consentano di assicurare continuità produttiva a uno stabilimento di interesse strategico nazionale, contenendo il più possibile i rischi per l’ambiente, la salute e la sicurezza dei lavoratori.

Dall’altro lato, queste misure – la cui effettiva osservanza dovrà essere costantemente monitorata dalle autorità competenti – dovranno comunque “tendere a realizzare un rapido risanamento della situazione di compromissione ambientale o di potenziale pregiudizio alla salute determinato dall’attività delle aziende sequestrate”, e non invece “a consentirne indefinitamente la prosecuzione attraverso un semplice abbassamento del livello di tutela di tali beni”.

In applicazione di tali principi, la Corte ha ritenuto costituzionalmente illegittima la mancata previsione, nella norma esaminata, di un termine massimo di 36 mesi di operatività delle misure in questione. “La mancata fissazione di un termine massimo di durata di operatività della previsione del quinto periodo del comma 1-bis.1 dell’art. 104-bis norme att. cod. proc. pen. - si legge nella decisione - finisce, invece, per configurare un sistema di tutela dell’ambiente parallelo a quello ordinario, e affidato a una disposizione dai contorni del tutto generici: come tali inidonei ad assicurare che, a regime, l’esercizio dell’attività di tali stabilimenti e impianti si svolga senza recare pregiudizio alla salute e all’ambiente”. Ne consegue l’illegittimità costituzionale, sotto lo specifico profilo della mancata previsione di un termine di durata del regime individuato dall’articolo 104-bis, comma 1-bis.1, quinto periodo, norme att. cod. proc. pen., per contrasto con gli artt. 9, 32 e 41, secondo comma, Cost., con assorbimento della censura riferita all’articolo 2 Cost.

E, prosegue la Corte, la reductio ad legitimitatem può essere effettuata attraverso una pronuncia additiva che trova come punto di riferimento “significativo” la previsione dell’articolo 1, comma 1, del “decreto Ilva” (il Dl n. 207 del 2012, come convertito) che consente al Ministro dell’ambiente [e della sicurezza energetica] di autorizzare la prosecuzione dell’attività produttiva per un termine massimo di trentasei mesi.

Entro questo termine - conclude - , occorrerà in ogni caso assicurare il completo superamento delle criticità riscontrate in sede di sequestro e ripristinare gli ordinari meccanismi autorizzatori previsti dalla legislazione vigente.

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