Impugnazione inammissibile se la Pec è diversa da quella indicata dalla Dgsia
La Cassazione, sentenza n. 24604/2025, ribadisce la necessità di rispettare gli indirizzi indicati dal Direttore generale per i sistemi informativi automatizzati (Dgsia). Bocciata la questione di costituzionalità
In tema di impugnazioni, la Cassazione, sentenza n. 24604/2025, segnalata per il Massimario, ribadisce che è inammissibile l’atto di gravame depositato telematicamente presso un indirizzo di posta elettronica certificata diverso da quello indicato nel decreto del Direttore generale per i sistemi informativi automatizzati, come previsto dall’art. 87-bis, co. 1, Dlgs 150/2022.
Il richiamo normativo è alla ipotesi di inammissibilità prevista dalla lettera c) del comma 7 “quando l’atto è trasmesso a un indirizzo di posta elettronica certificata non riferibile, secondo quanto indicato dal provvedimento del Direttore generale per i sistemi informativi automatizzati di cui al comma 1, all’ufficio che ha emesso il provvedimento impugnato” . L’articolo prevede specifiche ipotesi di inammissibilità, il cui rilievo, è attribuito al giudice che ha emesso il provvedimento impugnato dal successivo comma 8 della norma, in deroga al disposto di cui all’art. 591, comma 2, Cpp.
Nel caso specifico, il Tribunale di Palermo rilevava tale ipotesi di inammissibilità e dichiarava inammissibile l’appello proposto con Pec inviata l’ultimo giorno utile ma non indirizzato alla casella di posta elettronica certificata per il deposito telematico delle impugnazioni, come indicata nel provvedimento del D.G.S.I.A. pubblicato nel Portale sei Servizi Telematici del Ministero della Giustizia.
L’ art. 87-bis del Dlgs n. 150/2022 (per come introdotto dall’art. 5- quinquies I. n. 199/2022), nell’attesa dell’entrata in vigore delle disposizioni previste dallo stesso decreto in materia di processo telematico, ha configurato un regime transitorio nel quale il deposito telematico è consentito, ma non imposto. Qualora però il difensore decida di avvalersene, è tenuto a rispettare le modalità prescritte per la presentazione dell’atto ed in particolare, quella in cui si stabilisce che l’impugnazione proposta a mezzo “pec” è inammissibile, oltre che nei casi disciplinati dall’art. 591 c.p.p., anche quando: a) l’atto non è sottoscritto digitalmente dal difensore; b) l’atto è trasmesso da un indirizzo di posta elettronica certificata che non è presente nel registro generale degli indirizzi elettronici; c) l’atto è trasmesso a un indirizzo di posta elettronica certificata non riferibile, secondo quanto indicato dal provvedimento del Dgsia all’ufficio che ha emesso il provvedimento impugnato.
La ratio spiega la Corte è quella di favorire una “accelerazione” delle comunicazioni e la “semplificazione” degli adempimenti di cancelleria, con l’obiettivo di contrarre i tempi di deposito degli atti presso gli uffici giudiziari da parte dei soggetti abilitati esterni, ma anche e soprattutto nell’esigenza di smistare in maniera efficace e immediata i flussi in ingresso presso le cancellerie, per consentire di gestire il carico di lavoro evitando defatiganti attività supplementari di verifica e trasmissione agli uffici competenti.
E se è vero che la giurisprudenza europea ha reputato contrarie all’art. 6, co. 1, della CEDU, interpretazioni eccessivamente formalistiche dei requisiti di ammissibilità per il ricorso per cassazione; va tuttavia evidenziato che la limitazione agli indirizzi inclusi nell’elenco direttoriale “non confligge con tale principio, ma anzi si allinea ad esso”, giacché trova fondamento in più disposizioni costituzionali. Rileva, infatti, il “principio del giusto processo”, quello del “buon andamento della pubblica amministrazione” collegato a quello della “giusta durata del processo”. Infatti, l’individuazione degli indirizzi di Pec, consente al cittadino di confidare in un immediato e rapido incardinamento del procedimento prescelto.
Né infine risulta condivisibile l’interpretazione tesa a valorizzare la capacità del deposito illegittimo di raggiungere “sostanzialmente” lo scopo alla luce del favor impugnationis. Infatti, in base all’insegnamento delle Sezioni Unite, la valorizzazione di tale regola non può tradursi nell’attribuzione al diritto vivente di una potestà integrativa della voluntas legis, né quindi consentire l’individuazione di diverse forme di presentazione del ricorso rispetto a quelle volute dal legislatore».
Infine, la Corte dichiara manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale relativa all’art. 87-bis, co. 8 (in relazione agli articoli 34 Cpp, 24 e 111 della Costituzione e art. 6 CEDU), considerato che il vaglio di inammissibilità dell’impugnazione effettuato dal giudice è esclusivamente formale e non di contenuto, e quindi privo di valutazioni sul merito dell’ipotesi accusatoria.