Istiga alla corruzione il sindaco che per un voto promette vantaggi al consigliere
Scatta il reato di istigazione alla corruzione per il sindaco che «pressa» un consigliere comunale a dare voto favorevole sul bilancio dell'ente locale. Promettendogli un vantaggio personale. E la sua posizione non cambia anche se la volontà del consigliere si fosse «già» determinata in tal senso su accordo con altro consigliere. Così la Corte di cassazione con la sentenza n. 8203/16, depositata ieri, ha rigettato il ricorso di un sindaco che, seppur avvantaggiato dalla declaratoria dell'avvenuta prescrizione, non è riuscito a sfruttare nel ragionamento dei giudici di merito e ora di legittimità nessuno degli argomenti a propria difesa. Restano, quindi corrette per gli ermellini tanto la condanna per istigazione alla corruzione quanto quella correlata di minaccia nei confronti di una dipendente amministrativa la cui figlia svolgeva attività politica a lui contraria.
L'istigazione alla corruzione - Sul reato di istigazione alla corruzione previsto dall'articolo 322 del Codice penale la Corte di cassazione ha messo soprattutto in luce la natura dell'atto di voto che il sindaco voleva condizionare. Si tratta appunto di atto discrezionale e non di induzione a realizzare un atto dovuto, da cui il tentivo di coartare la volontà del consigliere comunale verso il raggiungimento di un fine personale e non a tutela della collettività. L'atto non sarebbe più libero come il mandato politico impone. E, la conclusione non cambia se il consigliere oggetto delle pressioni del capo dell'esecutivo faccia parte della maggioranza che sostiene il sindaco.
Non costituisce un'esimente neanche l'affermazione del sindaco secondo il quale il proprio comportamento era dettato dalla legittima (almeno, politicamente o umanamente?) volontà di compattare la maggioranza di governo dell'ente locale.
Ancor meno è apparsa una giustificazione sufficiente a escludere il perseguimento di un fine illecito e individualistico il fatto che nel fare pressioni sul consigliere avesse più volte prospettato lo spettro del commissariamento. Infatti, tale scenario - appunto da evitare - poteva ben coincidere con l'interesse personale a non far emergere eventuali irregolarità che queste sì, invece, potevano danneggiare il sindaco in maniera concreta o almeno alivello di immagine.
La minaccia - Stessa situazione incompiuta si è realizzata nel caso della condanna per minaccia ex articolo 612 del Codice penale. Infatti, anche su questo versante le «minacce» ascritte al sindaco contro una dipendente non avrebbero avuto conseguenze, ma sarebbero state sufficienti a indurre quello stato di soggezione che concreta la minaccia. Dalle intercettazioni emergeva il desiderio di licenziare la dipendente comunale, che di fatto non poteva essere licenziabile se non attraverso un sistema di garanzie che il sindaco non avrebbe potuto comunque superare solo con la propria volontà. Tant'è vero che dalle intercettazioni emergeva il paragone nel settore privato dove un capo d'azienda sarebbe stato libero di recidere il rapporto. Il licenziamento aveva finalità ritorsive per la parentela della dipendente con un concorrente politico del sindaco. Ma anche se il licenziamento veniva prospettato indirettamente da altri che avevano riferito le parole del sindaco ciò era sufficiente a realizzare lo stato di ansia e soggezione nella dipendente, ciò che concretizzaa nei fatti il reato.
Corte di Cassazione – Sezione VI – Sentenza 29 febbraio 2016 n. 8203