L'avvocato che appella il magistrato di "partigianeria politica" esercita diffamazione non legittima critica
Con la sentenza n.45249/2021 la Corte di Cassazione ha evidenziato che in tema di diffamazione e diritto di critica giudiziaria, non è tuttavia scriminata la condotta che attribuisce parzialità per ragioni politiche ad un soggetto che esercita la funzione giudiziaria.
Il codice penale prevede che non sono punibili le offese contenute negli scritti presentati o nei discorsi pronunciati dalle parti o dai loro patrocinatori nei procedimenti dinanzi all'Autorità giudiziaria ovvero dinanzi a un'Autorità amministrativa quando le offese concernono l'oggetto della causa o del ricorso amministrativo.
Con la sentenza n.45249/2021 la Corte di cassazione ha evidenziato che in tema di diffamazione e diritto di critica giudiziaria, non è tuttavia scriminata la condotta che attribuisce parzialità per ragioni politiche a un soggetto che esercita la funzione giudiziaria. Ciò è intrinsecamente offensivo, sempre che ovviamente, non vi sia prova della verità della parzialità politica attribuita; intesa come verità storica del fatto specificamente denunciato.
Dunque qualora vengano in gioco accuse di negligenza e incapacità del magistrato, la critica giudiziaria può assumere una connotazione anche molto "pesante", aspra e persino sferzante. Laddove invece, detta critica si incentri su accuse di "partigianeria politica" e, quindi, attribuisca al magistrato un difetto di imparzialità e indipendenza, l'unica possibilità di ritenere la condotta diffamatoria scriminata deve essere indicata nella precisa verità storica del fatto.
La natura giuridica dell'istituto in parola è al centro di una disputa interpretativa che vede divisi coloro i quali ritengono che tale fattispecie configuri una causa di non punibilità, non idonea a escludere l'illiceità del fatto, e quanti invece sostengono trattarsi di una vera e propria causa di giustificazione o esimente, che esclude l'illiceità del fatto ed è ricollegabile all'esercizio del diritto di difesa costituzionalmente tutelato. In ogni caso la logica ispiratrice della normativa in parola è rinvenibile nell'esigenza di assicurare la libertà di discussione delle parti contendenti, anche nel caso di offesa non necessaria, ma che si inserisca nel sistema difensivo dei procedimenti con funzione strumentale; nel senso che le espressioni ingiuriose devono concernere, in modo diretto e immediato, l'oggetto della controversia e devono assumere rilevanza funzionale per le argomentazioni poste a sostegno della tesi prospettata o per l'accoglimento della domanda proposta.
Precisamente le offese non punibili sono (solo) quelle che concernono l'oggetto della causa e non quelle che, sia pure con finalità in senso lato difensive, investano vicende estranee alle questioni oggetto di causa.
L'esimente in parola, concernente la non punibilità delle offese contenute in scritti e discorsi pronunciati dinanzi alle Autorità giudiziarie e amministrative - nella vicenda si trattava di uno scritto volto, più che a mero reclamo avverso un provvedimento di rigetto d'istanza di ammissione al gratuito patrocinio, a sollecitare un vero e proprio procedimento disciplinare nei confronti di un magistrato - non è applicabile qualora le espressioni offensive siano contenute in una memoria difensiva inviata a persona diversa dal contraddittore del procedimento. Ciò in quanto l'operatività dell'esimente in argomento, funzionale al libero esercizio del diritto di difesa, deve restare circoscritta all'ambito del giudizio ordinario o amministrativo nel corso del quale le offese siano proferite; e sempre a condizione che queste ultime siano pertinenti all'oggetto della causa o del ricorso amministrativo.
Per quanto concerne invece la più ampia portata della scriminante del "diritto di critica" la Suprema corte ha evidenziato che l'esimente in parola postula comunque, quale presupposto necessario, la verità del fatto storico attribuito al diffamato, ove tale fatto sia posto a fondamento della elaborazione critica.
Sebbene non sia vietato l'utilizzo di termini che, pur se oggettivamente offensivi, abbiano anche il significato di giudizio critico negativo, l'esimente del diritto di critica postula in ogni caso una forma espositiva corretta, strettamente funzionale alla finalità di disapprovazione, e che mai trasmodi nella gratuita o nell'immotivata aggressione dell'altrui reputazione. Su tale fronte la giurisprudenza convenzionale europea ha posto l'accento sul fatto che i limiti della critica nei confronti dei funzionari che agiscono in qualità di personaggi pubblici nell'esercizio delle loro funzioni sono molto ampi. E il potere giudiziario non è sottratto alla critica, ma la speciale protezione dell'autorità giudiziaria, attuata anche mediante limitazioni alla libertà di espressione, si giustifica per il fatto che in tal modo si concorre a tutelare la buona amministrazione della giustizia; di cui il rispetto e la fiducia della collettività sono condizione imprescindibile.
La tutela dei giudici e dei pubblici ministeri è cioè necessaria anche in considerazione del particolare dovere di riserbo, prudenza e continenza che grava su di loro. Il diritto di critica nei confronti di esponenti della magistratura corrisponde cioè a un interesse pubblico; ma la critica non può tradursi in attacchi gravemente lesivi e infondati. La magistratura, in ragione del suo rappresentare un'istituzione fondamentale dello Stato, è meritevole di essere tutelata nell'immagine di imparzialità per la necessità di assicurare la fiducia dei consociati nel sistema giudiziario.
In democrazia il dissenso è certamente un valore ma va anche tutelato l'onore dei magistrati. Dal che può affermarsi che il limite della continenza nel diritto di critica, utile a scriminare il reato di diffamazione, è superato in presenza di espressioni che, in quanto gravemente infamanti e inutilmente umilianti, trasmodino in un puro attacco verbale rivolto al soggetto criticato. Il contesto nel quale la condotta si colloca e di cui deve tenersi conto per valutare la portata diffamatoria di una condotta, non può scriminare l'uso di espressioni che si risolvano nella turpe denigrazione della persona oggetto di critica in quanto tale, travalicando la linea di demarcazione tra il dissenso espresso sull'operato altrui, che deve essere ampiamente consentito in una società democratica soprattutto nei confronti di chi ricopra incarichi pubblici, e la lesione della reputazione e dell'onore della persona attaccata.
In democrazia a maggiori poteri corrispondono maggiori responsabilità e necessita il controllo da parte dei cittadini, esercitabile anche attraverso il diritto di critica. Dal che il diritto di critica dei provvedimenti giudiziari e dei comportamenti dei magistrati deve essere riconosciuto nel modo più ampio possibile, costituendo l'unico, reale ed efficace strumento di controllo democratico sull'esercizio di una rilevante attività istituzionale, che viene esercitata nel nome del popolo italiano da soggetti che, a garanzia della fondamentale libertà della decisione, godono di ampia autonomia e indipendenza. In altre parole il "dissenso" è certamente un valore da garantire come bene primario in una moderna società democratica che voglia davvero dirsi tale; ma non può trascendere le idee; esorbitare dalla ricostruzione dei fatti; fino a giungere a fondare manifestazioni espressive che diventino meri argomenti di aggressione personale di chi è portatore di una diversa convinzione.
Il precipitato logico è che se tale ampiezza espansiva della critica consentita si riscontra sul fronte delle censure alla professionalità del magistrato, anche quando esse si manifestino in una forma espressiva aspra e sferzante; non altrettanto può dirsi qualora la critica coinvolga i prerequisiti della funzione giurisdizionale, costituiti dai caratteri di indipendenza e autonomia, percepiti come imprescindibili attribuzioni dell'essere appartenenti all'ordine giudiziario, e coinvolga un giudizio di valore e di stima sulla "persona" del magistrato, piuttosto che sulle sue capacità professionali.