Penale

Suicidio assistito, resta il requisito del trattamento di sostegno vitale

La Corte costituzionale nella sentenza numero 66, depositata oggi, ha affermato che il requisito non è in contrasto con la Costituzione e ha rinnovato i propri appelli al legislatore

Non è costituzionalmente illegittimo subordinare la non punibilità dell’aiuto al suicidio al requisito che il paziente necessiti, secondo la valutazione medica, di un trattamento di sostegno vitale. È quanto ha stabilito la Corte costituzionale nella sentenza numero 66, depositata oggi, in cui sono state ritenute non fondate varie questioni di legittimità costituzionale dell’articolo 580 del codice penale, sollevate dal GIP di Milano, al quale il pubblico ministero aveva chiesto di archiviare due procedimenti penali per aiuto al suicidio nei confronti di Marco Cappato (indagato per il delitto di cui all’articolo 580 cod. pen.) commessi il 2 agosto 2022 e il 25 novembre 2022.

La Corte ha rammentato quanto già precisato nella sentenza numero 135 del 2024, pubblicata successivamente all’ordinanza di rimessione: il requisito che il paziente dipenda da un trattamento di sostegno vitale è integrato già quando vi sia l’indicazione medica della necessità di un tale trattamento allo scopo di assicurare l’espletamento delle sue funzioni vitali, in particolare ogniqualvolta si debba ritenere che l’omissione o l’interruzione di tale trattamento determinerebbe prevedibilmente la sua morte in un breve lasso di tempo, e sussistano tutti gli altri requisiti sostanziali e procedurali indicati dalla sentenza numero 242 del 2019. Non è dunque necessario che il paziente sia tenuto a iniziare il trattamento al solo scopo di poter poi essere aiutato a morire.

In assenza di una simile condizione, la Corte – reiterando considerazioni già svolte nella sentenza numero 135 del 2024 – ha ritenuto che non è discriminatorio limitare a questi pazienti la possibilità di accedere al suicidio assistito, e che tale limitazione non viola il diritto all’autodeterminazione del paziente. Pur non essendo, in ipotesi, precluso al legislatore compiere scelte diverse, laddove appresti le necessarie garanzie contro i rischi di abuso e di abbandono del malato, al legislatore stesso deve infatti riconoscersi un «significativo margine di discrezionalità […] nel bilanciamento tra il dovere di tutela della vita umana, discendente dall’art. 2 Cost., e il principio dell’autonomia del paziente nelle decisioni che coinvolgono il proprio corpo, e che è a sua volta un aspetto del più generale diritto al libero sviluppo della propria persona».

La Corte ha poi sottolineato il carattere essenziale che rivestono i requisiti e le condizioni procedurali per la non punibilità dell’aiuto al suicidio cui ha fatto riferimento la giurisprudenza costituzionale, in quanto funzionali sia a prevenire il pericolo di abusi a danno delle persone deboli e vulnerabili, sia a «contrastare derive sociali o culturali che inducano le persone malate a scelte suicide, quando invece ben potrebbero trovare ragioni per continuare a vivere, ove fossero adeguatamente sostenute dalle rispettive reti familiari e sociali, oltre che dalle istituzioni pubbliche nel loro complesso».

La Corte ha rammentato che costituisce preciso dovere della Repubblica garantire «adeguate forme di sostegno sociale, di assistenza sanitaria e sociosanitaria domiciliare continuativa, perché la presenza o meno di queste forme di assistenza condiziona le scelte della persona malata e può costituire lo spartiacque tra la scelta di vita e la richiesta di morte».

In proposito, ha osservato con preoccupazione che ancor oggi, nel nostro Paese, non è garantito un accesso universale ed equo alle cure palliative nei vari contesti sanitari, sia domiciliari che ospedalieri; vi sono spesso lunghe liste di attesa; si sconta una mancanza di personale adeguatamente formato e una distribuzione territoriale dell’offerta troppo divaricata; e la stessa effettiva presa in carico da parte del servizio sociosanitario, per queste persone, è a volte insufficiente.

Infine, la sentenza ha «ribadito con forza l’auspicio […] che il legislatore e il Servizio sanitario nazionale intervengano prontamente ad assicurare concreta e puntuale attuazione a quanto stabilito dalla sentenza n. 242 del 2019, ferma restando la possibilità per il legislatore di dettare una diversa disciplina nel rispetto delle esigenze richiamate ancora una volta dalla presente pronuncia».

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