Penale

La Cassazione si pronuncia in tema di contraffazione e indica i presupposti per la configurabilità del reato di cui all'art. 474 c.p.

Nota a margine della sentenza, Cass. Pen., Sez. V, 12.11.2020, n. 31836

di Fabrizio Ventimiglia e Giorgia Conconi*


Con la decisione in commento la Cassazione si pronuncia sui reati di contraffazione di marchi o brevetti e di introduzione e commercio di prodotti contraffatti, affermando che "l'interesse giuridico tutelato dagli artt. 473 e 474 c.p. è la pubblica fede in senso oggettivo, intesa come affidamento dei cittadini nei marchi o segni distintivi che individuano le opere dell'ingegno o i prodotti industriali e ne garantiscono la circolazione, e non l'affidamento del singolo, sicché, ai fini dell'integrazione dei reati non è necessaria la realizzazione di una situazione tale da indurre il cliente in errore sulla genuinità del prodotto; al contrario, in presenza di una contraffazione, i reati sono configurabili anche se il compratore sia stato messo a conoscenza dallo stesso venditore della non autenticità del marchio".

Questa in sintesi la vicenda processuale.

Il Tribunale di Catanzaro rigettava il riesame proposto avverso un decreto di sequestro probatorio emesso nell'ambito di un procedimento penale avviato in relazione all'ipotesi di reato di contraffazione.

Nello specifico, la Guardia di Finanza aveva proceduto ad eseguire nei confronti dell'indagato, titolare di una impresa di ricambi per automobili, un sequestro probatorio di numerosi pezzi di ricambio, indicanti marchi di case automobilistiche, esposti accanto a un cartello recante la dicitura "compatibili ma non originali".

Ebbene, il Tribunale di Catanzaro aveva ritenuto immune da vizi il provvedimento di sequestro nell'ambito del quale (benché succintamente) venivano indicate sia la fattispecie di reato in rilievo (rispetto al quale il Tribunale ne ravvisava anche il fumus) sia le finalità probatorie sottese all'applicazione della misura ablatoria.

L'indagato proponeva, pertanto, ricorso per Cassazione, deducendo, in primo luogo, difetto di motivazione del decreto di sequestro e, in secondo luogo, la violazione dell'art. 474 co. 2 c.p. in riferimento agli artt. 21 e 241 del Codice della proprietà industriale. In particolare, il ricorrente lamentava che il Tribunale non avesse replicato alla deduzione difensiva circa la natura descrittiva e non distintiva del logo sul prodotto, assumendo che, in caso contrario, si sarebbe potuta escludere - sulla base delle disposizioni del Codice della proprietà industriale - la possibilità che il cliente venisse indotto in errore tramite il collegamento tra i prodotti e i servizi del titolare del marchio e quelli del terzo fornitore. Sotto tale profilo aggiungeva, altresì, il ricorrente che la mancata apposizione sulle merci in questione di diciture quali "tipo", "modello", o "simile", dovesse essere intesa come una ulteriore circostanza atta ad escludere la volontà di generare equivoci sull'"originalità" del prodotto.

Ebbene, percorrendo l'iter motivazionale della sentenza, i Giudici di legittimità, nel dichiarare infondato il ricorso, giudicano immune da vizi il decreto di sequestro, correttamente motivato dal Pubblico Ministero in quanto funzionale alla necessità di prosecuzione delle indagini e al conseguente accertamento del reato oggetto di contestazione.

Relativamente al secondo motivo, la Corte, aderendo al consolidato e recente orientamento della giurisprudenza di legittimità, ha chiarito che l'art. 474 c.p. "tutela non già la libera determinazione dell'acquirente, bensì la fede pubblica, a nulla rilevando che le condizioni di vendita del prodotto siano tali da escludere la possibilità per gli acquirenti di esser tratti in inganno". In merito, invece, alla possibilità di riprodurre fedelmente pezzi di ricambio destinati ad essere inseriti in prodotti complessi senza incorrere nella violazione dei diritti di proprietà industriale, la Cassazione ha precisato che "non sussiste la denunciata violazione dell'art. 241 del Codice della proprietà industriale (D.Lgs. 10 febbraio 2005, n. 30), poiché la liberalizzazione concessa dalla norma non consente automaticamente di riprodurre sui componenti di un prodotto complesso - coperto da un diritto di privativa - il marchio dell'impresa produttrice dei componenti originali".

Sulla base di quanto sopra esposto, la Suprema Corte ha, in conclusione, sostenuto l'infondatezza della tesi del ricorrente, dal momento che l'affissione di un cartello dichiarativo della non originalità dei beni in vendita non rappresenta un valido argomento per escludere la configurabilità del delitto di cui all'art. 474 c.p. Infatti, l'integrazione del reato di contraffazione prescinde dalla materiale creazione di una condizione di confusione circa la genuinità del prodotto in capo al cliente, essendo, invece, sufficiente la mera riproduzione di un marchio registrato su un prodotto industriale.


* a cura dell'Avv. Fabrizio Ventimiglia e della Dott.ssa Giorgia Conconi, Studio Legale Ventimiglia

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