Responsabilità

La Cassazione «torna» alla tabella di Milano

Appena 10 giorni dopo la sentenza che «preferiva» la tabella di Roma, la Terza sezione torna a considerare lo storico riferimento nazionale

di Maurizio Hazan

Il diritto reclama, nei limiti del possibile, certezza. Ed è la Cassazione a doverla garantire, con indirizzi interpretativi “uniformi” e stabili, compatibilmente con l’evoluzione, della coscienza sociale. Tanto più in materie regolate da norme generali e aperte a letture potenzialmente difformi, come il danno da perdita del parentale. E invece qui la Corte sta mostrando un approccio a zig-zag: in poco più di 10 giorni, la Terza sezione ha pubblicato due sentenze piuttosto contraddittorie sulle tabelle da prendere a riferimento per quantificare il danno da risarcire.

La prima (la 10579/2021 del 21 aprile) di fatto propendeva per la tabella del Tribunale di Roma, la seconda (la 11719/2021 del 5 maggio) ha affermato l’assoluta legittimità di quella milanese, storico riferimento nazionale.

Nel primo caso, i giudici hanno invocato la necessità di adottare un metodo di valutazione fondato su una tabella a punti (quella romana, appunto) in grado di meglio concretizzare la regola equitativa nelle singole casistiche.

Nella seconda sentenza, invece, si legge che, «la decisione del giudice di merito di avvalersi della tabella del Tribunale di Milano, indipendentemente dal fatto che una o entrambe le parti ne avessero invocato l’applicazione, è in sintonia con la giurisprudenza di questa Corte».

Tale tabella, prosegue la Cassazione, raggiunge lo scopo di evitare che il giudice incorra nella equità pura, costituendo un criterio guida per la liquidazione equitativa del danno da perdita del rapporto parentale legittimamente adottabile come parametro di riferimento.

Non si tratterebbe di un criterio assoluto e indefettibile, perché anche la tabella di Roma potrebbe essere astrattamente applicabile: quel che conta è che a sostegno della decisione vi sia una adeguata motivazione tale da spiegare le ragioni della scelta adottata, con particolare riferimento ai fattori che, secondo quanto normalmente accade, consentono di graduare la valutazione della maggior o minor sofferenza patita dai superstiti (tra questi l’età della vittima e dei superstiti e l’intensità del vincolo familiare).

In sostanza, con questa seconda sentenza la Cassazione, prendendo atto della impossibilità di dar chimerica esattezza a quei risarcimenti, pone l’accento sulla prioritaria necessità di coniugare una criteriologia tabellare di base (quale garanzia di una uniformità di fondo) con una chiara motivazione della scelta del caso concreto. Senza che ciò imponga l’adozione della tabella a punti romana, essendo anzi ben predicabile l’utilizzo della più lasca tabella milanese, la quale nel fissare i propri range risarcitori, costituisce un parametro di riferimento nazionale entro il quale ciascun giudice potrà esercitare, motivatamente, il proprio potere di liquidazione equitativa del danno (e se del caso motivatamente discostarsene).

Si tratta, nel complesso, di una decisione più condivisibile della precedente, che coglie più precisamente l’essenza di un danno che mal si presta a valutazioni troppo meccaniche, che rischiano inoltre di dar luogo, in concreto, ad automatismi liquidativi davvero inopportuni.

Rimane il fatto che due sentenze così dissonanti, pubblicate a così breve distanza di tempo, tradiscono un poco la funzione uniformatrice che la Cassazione dovrebbe presidiare. Con il rischio di alimentare contrasti campanilistici e di dar vita, nel dubbio tra Roma e Milano, a scenari applicativi non facili da gestire. Mentre invece la valutazione della (incommensurabile) sofferenza patita dal congiunto suggerisce l’adozione di un metodo di base che guidi il giudice, tracciando le coordinate generali entro cui misurare la liquidazione equitativa del singolo caso e, per l’effetto, garantire una certa uniformità e prevedibilità delle decisioni.

Per saperne di piùRiproduzione riservata ©