La discriminazione indiretta nei licenziamenti: conferma giurisprudenziale e responsabilità datoriale
Nota a Tribunale di Roma, Sez. IV Lavoro, Sentenza 03/12/2024, n. 12377
La sentenza n. 12377/2024 del Tribunale di Roma affronta con rigore e coerenza il tema della discriminazione indiretta nei licenziamenti, ribadendo l’importanza di un’applicazione inclusiva del periodo di comporto. Il caso, riguardante una lavoratrice disabile, non si esaurisce nella semplice correzione di un errore formale ma solleva questioni più ampie relative all’obbligo datoriale di adottare pratiche che rispettino il principio di uguaglianza sostanziale.
Seguendo l’impronta tracciata da precedenti significativi, come la sentenza n. 3716/2023 della Corte d’Appello di Roma e la n. 9095/2023 della Cassazione, la pronuncia in esame afferma con chiarezza che la neutralità formale delle regole aziendali non può legittimare conseguenze discriminatorie. Il giudice arricchisce il quadro interpretativo soffermandosi sull’esigenza di declinare i principi di correttezza e buona fede in una gestione del rapporto di lavoro che, riconoscendo le peculiarità delle categorie protette, promuova soluzioni capaci di garantire un’autentica equità sostanziale.
La vicenda processuale
Il caso in esame riguarda una lavoratrice disabile licenziata per presunto superamento del periodo di comporto previsto dal contratto collettivo applicabile. Nel computo delle assenze, il datore di lavoro aveva incluso 151 giorni di isolamento domiciliare per Covid-19, nonostante la normativa emergenziale (art. 26, comma 2, d.l. n. 18/2020) escludesse tali giorni dal calcolo per i soggetti fragili.
La lavoratrice ha impugnato il licenziamento, contestando:
- 1. L’inclusione illegittima dei giorni di isolamento, che portava il totale delle assenze a 421 giorni, superando il limite contrattuale. Escludendo quei giorni, il periodo di assenza si riduceva a 270 giorni, ben al di sotto del tetto massimo.
- 2. La violazione del divieto di discriminazione indiretta, sottolineando come l’applicazione uniforme del comporto avesse prodotto un effetto sproporzionato a suo danno.
- 3. La mancata adozione di accomodamenti ragionevoli, tra cui la comunicazione sull’approssimarsi del termine del comporto e il dialogo sulle cause delle assenze.
La decisione del Tribunale
Il Tribunale di Roma ha accolto il ricorso della lavoratrice, fondando la propria decisione su due distinti profili.
Il primo attiene alla violazione dell’art. 26, comma 2, del d.l. n. 18/2020, che prevede l’esclusione dal computo del periodo di comporto dei giorni di isolamento domiciliare per i soggetti fragili. L’errata inclusione di tali giorni ha comportato una valutazione inesatta delle assenze, determinando la nullità del licenziamento per violazione di una norma inderogabile. Questo elemento, da solo, sarebbe stato sufficiente a definire il giudizio in favore della lavoratrice, con conseguente reintegrazione.
Tuttavia, il Tribunale – e ciò appare significativo - ha ritenuto opportuno andare oltre, affrontando il profilo della discriminazione indiretta derivante dall’applicazione uniforme del comporto. Ha evidenziato come una prassi solo apparentemente neutra possa determinare effetti sproporzionati su lavoratori in condizioni di vulnerabilità, quali i soggetti disabili. Nel caso di specie, il carattere discriminatorio è stato aggravato dalla mancata comunicazione alla lavoratrice sull’approssimarsi del superamento del comporto e dall’assenza di un confronto finalizzato a valutare soluzioni alternative, elementi che avrebbero potuto limitare le conseguenze del provvedimento aziendale.
Questa impostazione argomentativa, che non si è limitata al mero accertamento della violazione normativa, esprime chiaramente la volontà del Tribunale di richiamare i principi di uguaglianza sostanziale e accomodamento ragionevole, ribadendo che il datore di lavoro non può limitarsi a un’applicazione rigida delle regole contrattuali. Al contrario, è chiamato a considerare le specificità dei lavoratori appartenenti a categorie protette, adottando criteri gestionali che prevengano trattamenti discriminatori e rispettino pienamente i diritti fondamentali.
Il contesto giurisprudenziale
La sentenza n. 12377/2024 si inserisce in un percorso giurisprudenziale che ha progressivamente rafforzato le tutele dei lavoratori disabili, sottolineando l’importanza di considerare le specificità individuali nel calcolo del periodo di comporto e nella gestione dei rapporti di lavoro. A livello nazionale, le già citate pronunce della Corte d’Appello di Roma e della Corte di Cassazione hanno evidenziato che l’applicazione uniforme delle regole contrattuali, senza distinzione tra assenze ordinarie e quelle dovute alla disabilità, può configurare una discriminazione indiretta, violando il principio di uguaglianza sostanziale sancito dall’art. 3 della Costituzione.
Questi orientamenti trovano fondamento nella normativa comunitaria, in particolare nella Direttiva 2000/78/CE, che impone agli Stati membri di garantire l’adozione di accomodamenti ragionevoli per i lavoratori disabili, al fine di prevenire ogni forma di discriminazione. Tali principi sono stati recepiti nell’ordinamento italiano con il D.Lgs. 216/2003, che impone al datore di lavoro di adottare misure idonee a garantire pari opportunità ai dipendenti con disabilità, anche adattando le regole aziendali alle loro esigenze specifiche.
A livello internazionale, il riferimento principale è rappresentato dalla Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, ratificata dall’Italia con la legge n. 18/2009. La Convenzione sottolinea il diritto delle persone con disabilità a lavorare su base di uguaglianza con gli altri, imponendo agli Stati l’obbligo di garantire condizioni lavorative che tengano conto delle specificità individuali e promuovano l’inclusione.
Tuttavia, nonostante la consolidata affermazione di tali principi, il caso in esame mette in luce la persistente mancanza di indicazioni operative univoche sull’applicazione concreta dell’obbligo di accomodamento ragionevole. La giurisprudenza, pur ribadendo che questo obbligo è essenziale per prevenire discriminazioni indirette, lascia ampi margini di discrezionalità nella sua attuazione, creando incertezza tanto per i lavoratori quanto per i datori di lavoro. L’adozione di linee guida operative potrebbe rappresentare un passo decisivo per garantire uniformità e prevedibilità, favorendo una gestione dei rapporti di lavoro più equa e sostenibile.
Spunti per il futuro: linee guida e prassi gestionali
Per promuovere una gestione uniforme dei rapporti di lavoro e fornire certezze tanto ai lavoratori quanto ai datori di lavoro, sarebbe opportuno che il legislatore o organismi competenti, come l’Ispettorato Nazionale del Lavoro, elaborassero linee guida operative che chiariscano le modalità di calcolo del periodo di comporto e l’applicazione degli accomodamenti ragionevoli.
Tali linee guida avrebbero un duplice effetto positivo: garantirebbero maggiore tutela ai lavoratori disabili e offrirebbero ai datori di lavoro strumenti concreti per rispettare i propri obblighi senza incorrere in errori interpretativi.
In particolare, si potrebbero prevedere:
- 1. Comunicazione preventiva: Obbligo per i datori di lavoro di informare tempestivamente i lavoratori sull’approssimarsi del superamento del comporto, specificando le assenze computate e offrendo la possibilità di avviare un dialogo per chiarimenti o documentazioni integrative. Questo eviterebbe situazioni di incertezza e ridurrebbe il rischio di contenziosi.
- 2. Esclusione automatica di specifiche assenze: Normare in modo chiaro le assenze da escludere (ad esempio, quelle per fragilità sanitaria o terapie salvavita), offrendo una guida precisa ai datori di lavoro per evitare errori di calcolo che possano configurare discriminazioni indirette.
- 3. Confronto obbligatorio: Introdurre l’obbligo di un confronto formale tra datore di lavoro e lavoratore prima di procedere alla risoluzione per superamento del comporto, con l’obiettivo di valutare le cause delle assenze e possibili soluzioni alternative, come l’adattamento temporaneo delle mansioni o altre misure di supporto.
Queste linee guida offrirebbero non solo una maggiore certezza del diritto per i lavoratori, ma anche un quadro di riferimento chiaro e pratico per i datori di lavoro, che potrebbero gestire situazioni complesse con maggiore sicurezza e trasparenza, evitando errori che potrebbero condurre a contenziosi o violazioni dei diritti. La certezza normativa e operativa rafforzerebbe così la fiducia reciproca tra le parti, contribuendo a un ambiente lavorativo più inclusivo e sostenibile.
Conclusione
La sentenza del Tribunale di Roma si colloca nel solco di un orientamento giurisprudenziale consolidato, rappresentando un ulteriore passo nel ribadire l’importanza del principio di uguaglianza sostanziale e della tutela contro la discriminazione indiretta. Pur non apportando innovazioni, essa conferma con chiarezza l’obbligo per i datori di lavoro di evitare l’applicazione uniforme di regole aziendali quando queste possano produrre effetti sproporzionati nei confronti dei lavoratori appartenenti a categorie protette.
Appare evidente l’esigenza di sviluppare strumenti concreti e sistematici capaci di rendere effettivi i principi enunciati. Un diritto del lavoro realmente inclusivo richiede: chiarezza normativa, che riduca i margini di incertezza; cultura organizzativa, orientata alla valorizzazione delle diversità; e pratiche aziendali che considerino le specificità dei lavoratori vulnerabili.
L’elaborazione di linee guida operative, la formazione mirata per i responsabili delle risorse umane e il rafforzamento del dialogo tra imprese, sindacati e istituzioni potrebbero rappresentare i pilastri di un sistema capace di tradurre i principi giuridici in prassi coerenti e applicabili. La sentenza, dunque, conferma l’importanza di questo percorso, ma è nella riflessione che essa stimola che si può individuare la chiave per costruire un diritto del lavoro più equo e inclusivo.