La giurisprudenza amministrativa sugli obblighi del curatore fallimentare
Il presente contributo, per quanto modesto, mira, da una parte, ad illustrare la recente evoluzione giurisprudenziale in materia e, dall'altra, ad individuare le possibili conseguenze dell'ultima e significativa pronuncia, costituita dalla sentenza del 26 gennaio 2021, n.3 pronunciata dall'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato
La disciplina del Testo Unico Ambientale di cui al D.Lgs 3 aprile 2006, n.152 ha portato la giurisprudenza amministrativa ad interrogarsi sugli oneri -e, quindi, anche sulle responsabilità- del curatore fallimentare e, segnatamente, in materia di abbandono dei rifiuti e sull'obbligo di rimozione e ripristino ovvero smaltimento di tali rifiuti.
Il presente contributo, per quanto modesto, mira, da una parte, ad illustrare la recente evoluzione giurisprudenziale in materia e, dall'altra, ad individuare le possibili conseguenze dell'ultima e significativa pronuncia, costituita dalla sentenza del 26 gennaio 2021, n.3 pronunciata dall'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato.
Sin dalla sentenza del 27 luglio 2003, n. 4328 del Consiglio di Stato è stato sostenuto l'orientamento giurisprudenziale secondo il quale la curatela fallimentare non può essere destinataria di ordinanze sindacali volte a far bonificare i siti inquinati a seguito del precedente comportamento dell'impresa fallita. Infatti, "Il potere di disporre dei beni fallimentari […] non comporta necessariamente il dovere di adottare particolare comportamenti attivi, finalizzati alla tutela sanitaria degli immobili destinati alla bonifica da fattori inquinanti" (Cons. St. 27 luglio 2003, n.4328) anche perché "proprio il richiamo della disciplina del fallimento e della successione nei contratti evidenzia che la curatela fallimentare non subentra negli obblighi più strettamente correlati alla responsabilità dell'imprenditore fallito" (Cons. St. 27 luglio 2003, n.4328, ma in termini anche Cons. St. 16 giugno 2009, n.3885).
Le successive pronunce (ex multis: Cons. St. 30 giugno 2016, n.3274; T.A.R. Lombardia 3 marzo 2017, n.520; T.A.R. Sicilia 5 settembre 2018, n.1764) si sono soffermate sul rapporto tra la società fallita e la procedura fallimentare e, in particolare, è stato affermato -in virtù degli artt.42, comma 1, e 44, comma 1, L.F. (ora, con il medesimo tenore letterale, artt.142 e 144 C.C.I.I.)- che il curatore non subentra negli obblighi derivanti dalla responsabilità del fallito dal momento che la società fallita conserva comunque la propria soggettività giuridica e rimane titolare del proprio patrimonio perdendone, tuttavia, la facoltà di disposizione per effetto dello spossessamento in favore del fallimento che, lungi dall'acquisirne la titolarità, ne diviene amministratore con facoltà di disposizione in forza dell'ufficio di munus publicus rivestito dalla curatela. Ragione per cui, nei confronti del fallimento, non è ravvisabile un fenomeno di successione che renderebbe il curatore fallimentare legittimato passivo agli obblighi di ripristino di cui all'ordinanza del Sindaco, dal momento che "il curatore del fallimento – non essendo né rappresentante, né successore del fallito, ma terzo subentrante nell'amministrazione del suo patrimonio per l'esercizio di poteri conferitigli dalla legge, né essendo destinatario di specifici obblighi di sorveglianza – non può essere chiamato a rispondere di comportamenti del responsabile dell'inquinamento" (Cass. pen. 16 giugno 2016, n.40318). Medio tempore, la giurisprudenza amministrativa ha comunque individuato casi in cui la curatela fallimentare può esser destinataria di ordinanza sindacali dirette alla tutela dell'ambiente.
Il primo caso riguarda l'ipotesi in cui il curatore fallimentare svolga attività d'impresa (T.A.R. Lombardia 3 marzo 2017, n.520, T.A.R. Trentino-Alto Adige 20 marzo 2017, n.93). D'altronde, in questo caso è evidente che l'esercizio di tale attività avvantaggi economicamente la procedura -o, meglio, i creditori di quest'ultima- e, pertanto, è opportuno che il peso delle diseconomie esterne prodotte debba esser sopportato dalla procedura fallimentare.
L'altro caso, invece, riguarda le ipotesi in cui risulti la "univoca, autonoma e chiara responsabilità del curatore fallimentare" (T.A.R. Campania 18 ottobre 2010, n.11823, T.A.R. Lombardia 5 gennaio 2016, n.1 e T.A.R. Basilicata 4 aprile 2017, n.293). Trattasi, con tutta evidenza, di casi in cui all'inerzia e/o negligenza del curatore consegua la produzione di rifiuti, in un momento successivo alla dichiarazione di fallimento, il cui recupero quindi spetterà alla curatela, potendola anche esporre ad azioni di responsabilità.Venendo alla recente sentenza del 26 gennaio 2021, n.3 pronunciata dalla Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, che costituisce un'importante inversione di rotta nella giurisprudenza amministrativa.
La questione posta all'esame consisteva nello stabilire se, a seguito della dichiarazione di fallimento, perdessero o meno rilevanza gli obblighi cui era tenuta la società fallita ai sensi dell'art.192 del D.Lgs 3 aprile 2006, n.152.
L'Adunanza ha ritenuto che "la presenza dei rifiuti in un sito industriale e la posizione di detentore degli stessi, acquisita dal curatore dal momento della dichiarazione di fallimento, tramite l'inventario dei beni dell'impresa medesima ex artt.87 e ss L.F., comportino la sua legittimazione passiva all'ordine di rimozione".
L'onere di rimozione, infatti, discenderebbe dalla qualifica di detentore acquisita dal curatore fallimentare non in riferimento ai rifiuti, bensì in virtù della detenzione del bene immobile sul quale i rifiuti insistono.
Inoltre, la curatela -che ha la custodia dei beni del fallito- non potrebbe avvantaggiarsi dell'esimente prevista dall'art.192 del D.Lgs 3 aprile 2006, n.152 lasciando abbandonati i rifiuti derivanti dall'attività imprenditoriale dell'impresa fallita, anche nei casi in cui non prosegue l'attività imprenditoriale. A maggior ragione ove si consideri che l'abbandono dei rifiuti e l'inquinamento costituiscono esternalità negative che, quindi, "appare giustificato e coerente […] ricadano sulla massa dei creditori dell'imprenditore stesso che, per contro, beneficiano degli effetti dell'ufficio fallimentare della curatela in termini di ripartizione degli eventuali utili del fallimento".
Ragionando a contrario, infatti, "i costi della bonifica finirebbero per ricadere sulla collettività incolpevole, in antitesi non solo con il principio comunitario "chi inquina paga", ma anche in contrasto con la realtà economica sottesa alla relazione che intercorre tra il patrimonio dell'imprenditore e la massa fallimentare di cui il curatore ha la responsabilità che, sotto il profilo economico, si pone in continuità con detto patrimonio". In definitiva, quindi, il curatore è legittimato passivo delle ordinanze sindacali di ripristino poiché "ricade sulla curatela fallimentare l'onere di ripristino e di smaltimento dei rifiuti di cui all'art.192 d.lgs. n.152-2006 e i relativi costi gravano sulla massa fallimentare".
Tale pronuncia, pur ispirata al rispetto della normativa europea e sensibile al tema ambientale, presta il fianco ad alcune osservazioni. Innanzitutto, la parte in cui il curatore acquisisce la detenzione del bene per effetto dell'inventario fallimentare è valida fintanto che questi, ai sensi dell'art.104 ter, comma 8, L.F. (ora art.213, comma 2, C.C.I.I.), previa autorizzazione del comitato dei creditori, non decida di non acquisire o rinunciare a liquidare uno o più beni se l'attività di liquidazione appaia manifestamento non conveniente: trattasi, peraltro, di un'ipotesi più che plausibile nel caso di un immobile su cui insistano rifiuti da smaltire.
Inoltre, il solo fatto di esserne stato momentaneamente detentore non preclude la possibilità di perdere tale qualifica -e gli oneri che da essa derivano- qualora il curatore decidesse di non acquisire o rinunciare a liquidare il bene. Ed è questo il profilo più problematico e foriero di conseguenze. È bene ricordare, infatti, che i beni rientranti nell'attivo fallimentare, per il solo fatto di esser ivi ricompresi, subiscono di regola una significativa diminuzione del loro valore in sede di vendita. L'aver ricompreso il curatore fallimentare tra i legittimati passivi alle ordinanze sindacali di ripristino fa sì che la procedura debba sostenere i costi di smaltimento e ripristino, così rendendo più probabile l'esercizio della facoltà di cui all'art.104 ter, comma 8, L.F. dal momento che l'immobile deprezzato potrebbe rendere non conveniente la predetta acquisizione ovvero conveniente la rinuncia alla liquidazione. Corollario di questo è che ciò che non si voleva far rientrare dalla finestra, entrerà direttamente dalla porta dal momento che il ripristino dell'immobile di cui all'art.104 ter, comma 8, L.F. verrà, in tal caso, compiuto dall'Autorità ed i relativi costi ricadranno sulla "collettività incolpevole".
A proposito di collettività, inoltre, non appare convincente neanche l'aver previsto che i costi della bonifica ricadano sui creditori. È opportuno ricordare, infatti, che i creditori, sì, "beneficiano degli effetti dell'ufficio fallimentare della curatela in termini di ripartizione degli eventuali utili del fallimento", ma non in quanto altrimenti questi non riuscirebbero -individualmente- a soddisfarsi sul patrimonio del debitore, bensì perché, come tutte le procedure concorsuali, il fallimento è volto a garantire la par condicio creditorum e, pertanto, il Legislatore ha opportunamente previsto una "regia unitaria" della liquidazione di tale patrimonio sotto la direzione degli organi fallimentari e, in primis, della curatela.In altre parole, quindi, sembrerebbe che i creditori della procedura debbano subire i costi dello smaltimento e della bonifica per il mero fatto di essere i soggetti "più vicini" al fallito dal momento che beneficerebbero della ripartizione dell'attivo fallimentare.
A tacere, inoltre, del fatto che, in un'ottica commerciale, i soggetti sui quali ricadrebbero tali costi sarebbero i clienti che acquisterebbero i beni o servizi della società non fallita e non i fornitori, lavoratori o banche ovvero quei soggetti che vantano un credito nei confronti della società e che, peraltro, in caso di procedura concorsuale, già difficilmente vedranno soddisfatto integralmente il loro credito. Infine, un altro aspetto su cui soffermarsi, è l'ordine di distribuzione delle somme relative alle spese per l'intervento di eliminazione del pericolo ambientale. Infatti, in caso di fallimento o liquidazione giudiziale, che provvedano direttamente all'eliminazione di tale pericolo, le relative spese rientrano senza dubbio in quelle da soddisfarsi in prededuzione poiché sorte in occasione o in funzione della procedura ex artt.111 e ss. L.F. (ora artt.221 e ss. C.C.I.I). L'Adunanza Plenaria ha affermato che le spese per questi interventi godranno di privilegio speciale sull'area bonificata ai sensi dell'art.253, comma 2, D.Lgs 3 aprile 2006, n.152. Sembrerebbe, quindi, che tali crediti non godrebbero della prededuzione, ma solamente del privilegio di cui sopra. In altri termini, quindi, secondo la lettera della sentenza in commento, a seconda del soggetto che sopporti le spese di intervento queste vedrebbero cambiare il loro ordine di distribuzione (dalla prededuzione al privilegio).
In realtà, a nostro avviso, quanto affermato dall'Adunanza Plenaria, andrebbe letto unitamente alla disciplina sulla prededuzione (e non in sostituzione) alla disciplina sulla prededuzione e, pertanto, alla prededuzione si aggiungerebbe anche il privilegio di cui all'art.253, comma 2, D.Lgs 3 aprile 2006, n.152.
*a cura dell'Avv. Stefano Vona, Ordine degli Avvocati di Roma
*Franco Casarano
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