Penale

La Suprema Corte di Cassazione torna sul tema della diffamazione commessa a mezzo social network

Nota a sentenza: Cass. Pen., Sez. V, sent. n. 8898, 4/03/2021

di Fabrizio Ventimiglia e Maria Elena Orlandini*

Nella recentissima sentenza n. 8898/2021, depositata il 4 marzo 2021, la Suprema Corte di Cassazione torna sul tema della diffamazione commessa a mezzo social network , soffermandosi, in particolare, sulla valutazione della causa di non punibilità di cui all'art. 599 c.p., nonché sui presupposti richiesti per la configurabilità della scriminante del diritto di critica di cui all'art. 51 c.p.

Di seguito, in sintesi, la vicenda processuale.

Con la sentenza impugnata, emessa dalla Corte d'Appello di Firenze, venivano condannati due coniugi per il delitto di diffamazione, commesso mediante la pubblicazione di commenti offensivi sul social network Facebook. La Corte di Appello confermava la decisione del Tribunale di Lucca che aveva ritenuto i predetti commenti lesivi dell'onore e della reputazione di un noto ciclista.

Entrambi gli imputati proponevano ricorso per cassazione per i seguenti motivi:

a) con il primo motivo, denunciavano la violazione degli artt. 599 e 59 c.p. e correlato vizio della motivazione – mancante e contraddittoria – sotto il profilo del mancato riconoscimento della causa di non punibilità di cui all'art. 599 c.p.;

b) con il secondo motivo lamentavano, invece, l'erronea valutazione della scriminante del diritto di critica ai sensi dell'art. 51 c.p.

La Quinta Sezione della Suprema Corte di Cassazione ritiene infondato il primo motivo di ricorso in quanto, secondo il condiviso orientamento di legittimità, il comportamento provocatorio, costituente il fatto ingiusto, che dovrebbe causare lo stato di ira e la reazione diffamatoria dell'offensore, deve ritenersi contrario alla civile convivenza secondo una valutazione oggettiva e non in forza della mera percezione negativa che del medesimo abbia avuto l'agente.

Ne consegue che non è sufficiente che l'agente si sia sentito provocato, essendo necessario che questi sia stato oggettivamente provocato.

Nel caso in esame, le allegazioni prodotte dagli imputati a sostegno della provocazione dai medesimi subita, risultano del tutto inidonee a costituite una valida piattaforma su cui fondare la valutazione della condotta dei ricorrenti in termini di reazione giustificabile ai sensi dell'art. 599 c.p., non essendo ravvisabile un comportamento - univocamente - valutabile come violazione di una regola della civile convivenza.

Aggiunge, inoltre, la Suprema Corte come la citata attenuante non fosse prospettabile, nel caso di specie, neppure in forma putativa, non potendosi ravvisare fatti idonei a fondare la ragionevole, anche se erronea, opinione dell'illiceità del fatto altrui.

Per quanto concerne il secondo motivo di ricorso, i Giudici di legittimità ricordano, in primo luogo, come il diritto di critica possa essere evocato, quale scriminante ai sensi dell'art. 51 c.p., solo nell'ipotesi in cui sussista il rispetto del limite della veridicità dei fatti, della pertinenza degli argomenti e della continenza espressiva.

Orbene, nel caso di specie, la Suprema Corte ritiene sia stato superato il limite della continenza espressiva.

Ricordano, infatti, gli Ermellini come le modalità espressive attraverso le quali si estrinseca il diritto alla libera manifestazione del pensiero postulino una forma espositiva corretta della critica "senza trasmodare nella gratuita e immotivata aggressione dell'altrui reputazione".

Nel caso in scrutinio, "i due imputati, lungi dal manifestare una consentita critica all'operato professionale di un'atleta, hanno, piuttosto, preso di mira la persona, nei cui confronti hanno espresso il loro disprezzo con il ricorso a parole inutilmente umilianti e ingiustificatamente aggressive" e, per questo, oggettivamente trasmodanti il limite della continenza espressiva.

Rilevano i giudici come le parole utilizzate risultino, infatti, dirette alla persona, più che al comportamento del professionista, e idonee a esporre allo scherno e al ludibrio pubblico il destinatario, risolvendosi in un gratuito argumentum ad hominem, come tale non consentito dal diritto di critica.

Conclude, poi, la Suprema Corte enunciando un importante principio secondo cui ai fini del riconoscimento dell'esimente di cui all'art. 51 c.p. "qualora le frasi diffamatorie siano formulate a mezzo social network, il giudice, nell'apprezzare il requisito della continenza, deve tener conto non solo del tenore del linguaggio utilizzato ma anche dell'eccentricità delle modalità di esercizio della critica, restando fermo il limite del rispetto dei valori fondamentali, che devono ritenersi sempre superati quando la persona offesa, oltre che al ludibrio della sua immagine, sia esposta al pubblico disprezzo".

*a cura di Avv. Fabrizio Ventimiglia e Avv. Maria Elena Orlandini (dello Studio Legale Ventimiglia)

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