Le pari opportunità tra uomini e donne, un obiettivo lontano, una conquista faticosa, un percorso ad ostacoli?
Tra stereotipi, barriere istituzionali, culturali e logistiche e mancanza di incentivi, coperture contrattuali, assicurative, previdenziali, le pari opportunità tra uomini e donne risultano essere ancora un obiettivo lontano
Le pari opportunità rappresentano non solo un principio, ma obiettivo da perseguire, e al contempo anche un momento di riflessione giuridica. L’impegno a rimuovere ogni sorta di ostacolo discriminatorio dalla partecipazione degli individui alla vita sociale, economica, politica e al mondo del lavoro è principio sancito dalla Costituzione Italiana e mira a realizzare l’uguaglianza sostanziale tra uomo e donna nel lavoro e in generale nell’esercizio dei diritti umani e delle libertà fondamentali.
La parità di trattamento e di opportunità tra donne e uomini deve essere assicurata in tutti i campi, compresi quelli dell’occupazione, del lavoro e della retribuzione. L’ancoraggio normativo costituzionale va ricondotto agli artt. 3 (principio di uguaglianza), 4 (accesso al lavoro), 29 e 31 (diritti della famiglia e maternità), 30 (doveri verso la prole), 37 (lavoro femminile), 48 (diritto di voto ed elettorato attivo), 51 (accesso alle istituzioni ed elettorato passivo).
Vige poi il Codice delle pari opportunità (Dlgs 198/2006), i cui Libro I Disposizioni per la promozione delle pari opportunità tra uomo e donna (artt. 1 - 22), Libro II - Pari opportunità tra uomo e donna nei rapporti etico-sociali (artt. 23 - 24), Libro III - Pari opportunità tra uomo e donna nei rapporti economici (artt. 25- 55) e Libro IV - Pari opportunità tra uomo e donna nei rapporti civile e politici (artt. 56 - 58) disciplinano la materia dal punto di vista della normativa speciale.
L’art. 29 Cost. è rimasto per molto tempo pressoché inattuato, soprattutto a causa delle disposizioni del Codice civile riguardanti il diritto di famiglia, rimaste inalterate fino alla riforma avvenuta con la legge n. 151 del 19 maggio 1975: la normativa vigente all’entrata in vigore della Costituzione definiva infatti il marito come capo della famiglia e parlava ancora di “patria” potestà, ponendosi in contrasto con il nuovo principio di uguaglianza morale e giuridica tra i coniugi. I novellati artt. 143 e 144 del Codice civile, in attuazione della regola di parità contenuta nell’art. 29 Cost., prevedono invece che «con il matrimonio il marito e la moglie acquistano gli stessi diritti e assumono i medesimi doveri» e che «i coniugi concordano tra loro l’indirizzo della vita familiare».
Nell’ambito dell’ordinamento civile una disparità tra i coniugi, derivante dagli artt. 143 bis e 262 del Codice civile sulla regolamentazione del cognome della moglie e dei figli, è stata risolta con l’intervento della Corte Costituzionale: dal 2 giugno 2022 il doppio cognome per i nuovi nati è automatico, se c’è accordo tra i genitori
E’ scomparsa solo con la legge n. 91 del 5 febbraio 1992 la disparità tra uomini e donne in materia di acquisto e perdita della cittadinanza: prima di tale data, e nonostante alcune modifiche alla normativa risalente al 1912 apportate dopo l’entrata in vigore della Costituzione, lo Stato italiano sembrava considerare di secondo grado la cittadinanza della donna rispetto a quella dell’uomo: la donna italiana che sposava uno straniero poteva perdere la cittadinanza per rinuncia e non poteva trasmetterla neanche ad un marito interessato ad ottenerla, mentre il cittadino italiano che prendeva in moglie una straniera, non solo investiva automaticamente della propria cittadinanza la moglie, ma non poteva rinunciare alla sua in favore di quella della moglie.
Ricordiamo poi la legge Golfo-Mosca (legge 12 luglio 2011, n. 120) che ha imposto le quote di genere, ha introdotto un meccanismo per rendere più equilibrata la rappresentanza dei generi all’interno degli organi collegiali delle società italiane con azioni quotate in mercati regolamentati italiani o di altri paesi dell’Unione europea e delle società, non quotate, controllate dalle pubbliche amministrazioni. Questa legge stabilisce una percentuale obbligatoria di donne in azienda per garantire un’equa rappresentanza di uomini e donne in ambito lavorativo. Il riparto degli organi sociali deve assicurare l’equilibrio tra i generi, con gradualità applicativa delle disposizioni e sanzioni in caso di violazioni.
Un tema sicuramente critico riguarda il percorso di scolarizzazione: fin da piccoli i giovani maschi si avviano verso percorsi professionalizzanti e non hanno preclusioni nello scegliere facoltà scientifiche, acquisendo un bagaglio culturale che permetta loro di accedere a posizioni di vertice o più redditizie (nei campi per esempio della scienza, tecnologia, ingegneria e matematica). Le donne, dovendo occuparsi anche al “lavoro di cura” (famiglia, eventuali figli, anziani), attività che rappresenta un “unpaid work”, compiono sovente scelte preclusive e limitanti. Bisognerebbe quindi operare delle scelte ed introdurre degli strumenti che consentano alle donne di accedere a professioni parimenti remunerative (misure di welfare attivo e ammortizzatori sociali). Vi è quindi un ostacolo ab origine alla piena occupazione femminile. Peraltro anche a parità di professione il gender gap tra uomini e donne è tema acclarato. I rapporti sulle libere professioni dei vari Osservatori (medici, farmacisti, biologi, architetti, psicologi, ingegneri, geometri, avvocati, notai, consulenti del lavoro, commercialisti, ecc.) indicano come le donne professioniste siano a maggior rischio e che le donne sono sottoremunerate anche nei ruoli apicali. Mantenere la propria posizione è più impegnativo per la donna rispetto all’uomo. Mancano tuttora standards di tutela e strumenti organici e concreti. Il che significa che il potenziale del mondo femminile non è del tutto utilizzato.
Tra stereotipi, barriere istituzionali, culturali e logistiche e mancanza di incentivi, coperture contrattuali, assicurative, previdenziali, le pari opportunità tra uomini e donne risultano essere ancora un obiettivo lontano. Occorrerebbe affrontare anche i vincoli/limiti degli uomini: il pregiudizio radicato impedisce tuttora all’uomo di occuparsi della casa, dei figli, del lavoro di cure, che restano appannaggio del mondo femminile, destando sorpresa se le donne raggiungono ambiti tradizionalmente maschili. Per non parlare poi della intersezionalità del mondo femminile: donne mature, donne disabili, etnie diverse, diversità di genere. Nonché della loro naturale tendenza al multitasking, che le gratifica dal punto di vista emotivo, condizionandole però nei risultati rispetto agli uomini perché le donne devono affrontare una povertà di tempo maggiore rispetto agli uomini. Inoltre – paradossalmente - le donne tendono e reinvestire il proprio reddito sulla famiglia e non su loro stesse. Compiono rinunce importanti, spesso anche nel decidere di non cercare delle opportunità, finendo col dipendere dai redditi dei propri partners. Vi è di fatto una progettualità ridotta, una precarietà che rappresenta una ingiustizia sociale evidente e grave, che potrebbe quantomeno colmarsi con politiche sul lavoro, un nuovo paradigma femminile ed inclusivo; strumenti di solidarietà, investimenti per l’emancipazione femminile; campagne di comunicazione e di linguaggio di genere.
Sul sito del Ministero per le pari opportunità troviamo la Strategia nazionale per la parità di genere 2021-2026, che si ispira alla Gender Equality Strategy 2020-2025 dell’Unione europea, con una prospettiva di lungo termine, rappresenta lo schema di valori, la direzione delle politiche che dovranno essere realizzate e il punto di arrivo in termini di parità di genere.
La Strategia è una delle priorità trasversali del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza e il riferimento per l’attuazione della riforma del Family Act. Il documento strategico è il risultato di un percorso ampio e partecipato che ha coinvolto le amministrazioni, le parti sociali e le principali realtà associative. Cinque le priorità: Lavoro, Reddito, Competenze, Tempo e Potere, con obiettivi e target dettagliati e misurabili, da raggiungere entro il 2026.
La vera parità di genere e l’abbattimento del divario si raggiungeranno dando a tutti e tutte, uomini e donne, la libertà di scelta del proprio ruolo nella società, senza barriere o (pre)giudizi. Ma per realizzare tutto ciò è necessario però un profondo cambiamento culturale e politico che deve partire dal basso e che ci deve vedere tutte e tutti, uomini e donne, impegnati a rivoluzionare il nostro modo di pensare e di agire. Il tutto si trasformerebbe in uno straordinario motore di sviluppo economico, sociale e culturale innovativo e redditizio in termini umani, non solo economici, in un cambiamento che porti all’inclusione delle donne in ambito economico e decisionale.
______
*Federica Federici, Avvocato – Professore a Contratto la Sapienza e Federico II di Napoli