Civile

Le Sezioni Unite intervengono per chiarire i casi di perdita della cittadinanza italiana "iure sanguinis"

Con la pronunce che la stessa Corte non esita a definire di carattere "epocale", le SU svolgono un attento ed approfondito lavoro di ricostruzione delle fonti non solo interne, ma anche e soprattutto della normativa straniera richiamata e della sua applicazione pratica

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di Marco Mellone*

Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno pubblicato in data 24 agosto 2022 due importanti sentenze "gemelle" ( n. 25317 e n. 25318 ) entrambe aventi ad oggetto la materia della cittadinanza italiana per diritto di sangue (iure sanguinis).

L'intervento delle Sezioni Unite era particolarmente atteso dato che erano (e sono) attualmente pendenti innanzi alla Corte di Appello diverse centinaia di appelli presentati dal Ministero dell'Interno, tutti vertenti sulla medesima questione giuridica.

La vicenda all'esame della Suprema Corte

La cittadinanza italiana per diritto di sangue si trasmette senza limiti generazionali. Di conseguenza, qualora si dimostri di avere un ascendente italiano, anche molto lontano (con il solo limite che questi sia deceduto dopo la proclamazione del Regno d'Italia e che non abbia mai perso in vita la cittadinanza italiana), è possibile ottenere il riconoscimento della cittadinanza italiana iure sanguinis anche a distanza di molti anni e di molte generazioni.

E' ciò che avevano chiesto alcuni cittadini brasiliani, discendenti di un cittadino italiano emigrato (come milioni di altri nostri connazionali) alla fine del Diciannovesimo Secolo nel continente Americano, i quali, dopo aver ricostruito documentalmente la catena di discendenza italiana, si erano rivolti al Tribunale ordinario di Roma.

Tuttavia, il Ministero dell'Interno (contraddittore in questo tipo di giudizi) aveva eccepito la perdita della cittadinanza italiana da parte dell'avo emigrante. In particolare, secondo la tesi ministeriale, questo nostro concittadino si sarebbe trovato in Brasile nell'anno 1889, allorché lo Stato brasiliano adottò il decreto n. 58-A del 14 dicembre del 1889, con il quale di fatto invitò tutti gli emigranti presenti sul territorio brasiliano a dichiarare entro un termine di sei mesi (poi prorogato) la volontà di mantenere la cittadinanza di origine, altrimenti sarebbero stati considerati automaticamente cittadini brasiliani. Dalla mancata presentazione di tale dichiarazione, il Ministero afferiva che l'avo emigrante avesse acquisito la cittadinanza brasiliana e, che, quindi, avesse perso la cittadinanza italiana. Ed invero, ai sensi dell'articolo 11 del Codice Civile del 1865, n. 2 (applicabile ratione temporis alla fattispecie de qua) chiunque avesse "ottenuto la cittadinanza in paese estero" perdeva la cittadinanza italiana.

Il Tribunale di Roma rigettava l'eccezione ministeriale, anche perché i discendenti avevano prodotto un'attestazione della competente Autorità brasiliana che dichiarava che l'avo emigrante non aveva mai acquisito la cittadinanza italiana (cd. certidão negativa de naturalização).

Tuttavia, la decisione di primo grado che riconosceva la cittadinanza italiana ai discendenti veniva ribaltata dalla Corte di Appello di Roma con la sentenza n. 5171/2021 del 14/07/2021. In sostanza, la Corte di Appello riteneva che l'ottenimento della cittadinanza straniera poteva avvenire anche in forma tacita e, dunque, per non aver manifestato una volontà contraria all'ottenimento della cittadinanza straniera (né era ostativo il certificato di non naturalizzazione prodotto dagli interessati, data la sua genericità). Per di più, la Corte di Appello sosteneva che anche il figlio dell'avo emigrante, già nato sul suolo brasiliano e considerato iure soli cittadino brasiliano, avesse tacitamente perso l'eventuale cittadinanza italiana trasmessa iure sanguinis dal padre, posto che, alla maggiore età, egli non avrebbe rinunciato alla cittadinanza brasiliana in favore di quella italiana, manifestando così la volontà implicita di perdere ogni legame con la nazionalità italiana.

A suffragio di tali tesi, la Corte di Appello richiamava il "principio di effettività" della cittadinanza, sostenendo che l'aver sempre vissuto e lavorato in quel paese (equiparando addirittura il mero lavoro nei campi brasiliani, cui erano spesso destinati i nostri emigranti, alla stregua di un impiego pubblico all'estero e, dunque, ad un'ulteriore ipotesi di perdita della cittadinanza italiana ai sensi dell'articolo 11, comma terzo, del Codice Civile del 1865) erano criteri indicativi della scelta "tacita" a favore della cittadinanza brasiliana.

L'impianto argomentativo di questa decisione della Corte di Appello di Roma era in realtà contraddetto da diverse decisioni della medesima Corte di Appello di Roma (diversa sezione) che, sulla medesima questione giuridica, si allineavano alla posizione espressa dal Tribunale di Roma, condannando peraltro il Ministero dell'Interno al pagamento delle spese processuali (ex multis, sentenza n. 6640/2021, n. 1496/2022, n. 4153/2022, n. 4707/2022 e n. 4711/2022).

Ciononostante, il Ministero dell'Interno insisteva nel presentare un numero considerevole di appelli, facendo leva sul precedente favorevole ed inducendo la Corte Suprema, innanzi alla quale nel frattempo era stata impugnata la suddetta decisione contraria della Corte di Appello, a provocare un pronunciamento rapido ed a Sezioni Unite, al fine di chiarire definitivamente la questione giuridica.

Le motivazioni della Suprema Corte

A riprova dell'importanza del pronunciamento in questione, la medesima Corte di Cassazione non esita a definire la decisione di carattere "epocale", dato il vasto pubblico di potenziali interessati dalla questione giuridica in gioco.

Ed anche alla luce della delicatezza della questione, la Suprema Corte svolge un attento ed approfondito lavoro di ricostruzione delle fonti non solo interne, ma anche e soprattutto della normativa straniera richiamata e della sua applicazione pratica. Grazie a questo lavoro, la Corte di Cassazione giunge a dipanare alcuni nodi cruciali.

In primis, i casi di perdita della cittadinanza sono limitati alle fattispecie previste espressamente dalla normativa dello stato della cui cittadinanza si discute. In altre parole, la scelta di valutare un determinato comportamento ai fini dell'acquisizione o della perdita dello status civitatis spetta unicamente al legislatore nazionale, non avendo alcuna rilevanza le scelte legislative compiute da altri legislatori i quali possono decidere chi considerare "propri" cittadini, ma non possono condizionare le analoghe scelte legislative degli altri stati.

In altre parole, l'adozione di criteri che rimandano al principio di effettività (qui per la verità declinato nella sua dimensione "interna" e non nell'accezione "esterna" e cioè come regola di diritto internazionale pubblico per dirimere le controversie sulla cittadinanza tra stati, su cui pure non esiste unanimità di vedute in dottrina) è una scelta che spetta a ciascun legislatore nazionale e, nel caso concreto, l'ordinamento italiano ha da sempre previsto delle fattispecie di perdita della cittadinanza che implicano comportamenti "attivi" e "volontari". In questo senso, quindi, va interpretato il verbo "ottenere" utilizzato dall'articolo 11 n. 2 del Codice Civile del 1865 (il cui senso fu poi confermato dal successivo articolo 8 della Legge n. 555/1912), diversamente da quanto sostenuto dalla Corte di Appello che invece aveva valorizzato il mero silenzio dell'avo emigrante (peraltro, all'epoca il Governo italiano protestò per il trattamento giuridico riservato ai propri connazionali). Non a caso, alle medesime conclusioni era arrivata la Corte di Cassazione di Napoli nel lontanissimo 1907 nell'unico caso (almeno per quanto noto) in cui si discusse circa la rilevanza della "grande naturalizzazione brasiliana" nell'ordinamento italiano.

In secondo luogo, la Suprema Corte esclude che, anche in base alla medesima normativa brasiliana l'avo emigrante avesse realmente acquisito la cittadinanza brasiliana, posto che l'effettiva acquisizione dei diritti e dei doveri legati al nuovo status civitatis era legata ad una fattispecie a formazione progressiva che prevedeva, oltre al comportamento "passivo" (determinato dalla mancata dichiarazione di mantenimento della cittadinanza di origine), anche ad ulteriori attività (queste sì qualificabili come "attive") quali l'iscrizione nelle liste elettorali locali.

L'illegittimità dal punto di vista sostanziale delle decisioni impugnate era accompagnata anche da una illegittimità processuale, posto che la perdita della cittadinanza italiana era stata provata sostanzialmente attraverso presunzioni semplici e generiche, e in contrasto con un documento pubblico emesso dallo stato straniero che invece attestava esattamente il contrario. Anche per questa ragione, la Suprema Corte ribadisce che anche in tema di cittadinanza italiana (anzi a maggior ragione in relazione ad uno status così centrale nella vita di una persona e di un ordinamento) occorre applicare in maniera rigorosa la ripartizione dell'onere della prova, spettando al discendente l'onere di provare l'originaria attribuzione della cittadinanza italiana e la ininterrotta trasmissione della stessa sino allo stesso e a chi vuole eccepire una circostanza impeditiva od estintiva di tale diritto dimostrare le relative circostanze.

I vari percorsi argomentativi – qui molto sinteticamente riassunti – hanno, quindi, portato la Suprema Corte all'elaborazione di quattro importanti e chiari principi di diritto che sicuramente sono destinati a fare chiarezza sui casi di perdita della cittadinanza italiana per diritto di sangue.

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*A cura dell'Avv. Marco Mellone , Mellone Law Firm

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