Leasing: l'indicizzazione del canone al tasso Libor e al rapporto di cambio non costituisce un derivato
In questo caso il contratto non muta natura e causa, solo perché uno dei suoi elementi presenti un'occasionale difformità rispetto allo schema legale tipico
«La clausola inserita in un contratto di leasing, la quale preveda che: a) la misura del canone varii in funzione sia delle variazioni di un indice finanziario, sia delle fluttuazioni del tasso di cambio tra la valuta domestica e una valuta straniera; b) l'importo mensile del canone resti nominalmente invariato, e i rapporti di dare/avere tra le parti dipendenti dalle suddette fluttuazioni siano regolati a parte; non è un patto immeritevole ex art. 1322 c.c., né costituisce uno "strumento finanziario derivato" implicito, e la relativa pattuizione non è soggetta alle previsioni del d. lgs. 58/98». Questo il principio di diritto enunciato oggi dalle Sezioni unite della Cassazione (sentenza n. 5657/23). I Supremi giudici hanno precisato che il contratto oggetto del presente giudizio prevedeva una doppia indicizzazione, agganciando le variazioni del canone sia alle variazioni del tasso Libor, sia alle variazioni del rapporto di cambio franco/euro. Ma queste condizioni non possono inficiare la natura del contratto. E infatti:
a) l'indicizzazione del canone al tasso Libor costituisce una normale clausola onnipresente nei finanziamenti a tasso variabile; essa è pacificamente lecita e non costituisce un derivato;
b) l'indicizzazione del canone alle fluttuazioni del rapporto di cambio costituisce una clausola-valore, secondo quanto appena esposto; così inquadrata, anch'essa è pacificamente lecita e non costituisce un derivato.
Si legge nella sentenza che non è dunque sostenibile che dalla combinazione di due clausole, tutte e due lecite e non costituenti uno strumento finanziario derivato, possa sorgere un contratto illecito e che costituisca uno strumento finanziario derivato.
La sentenza puntualizza, inoltre, che un contratto non muta natura e causa, solo perché uno dei suoi elementi presenti un'occasionale difformità rispetto allo schema legale tipico.
Un contratto, infatti, può dirsi atipico solo quando il rapporto per come disciplinato dalle parti diventi "del tutto estraneo al tipo normativo, perché trae le proprie ragioni di essere dall'adeguamento degli strumenti giuridici alle mutevoli esigenze della vita sociale e dei rapporti economici". La Cassazione ha voluto fare una serie di esempi relativi a diverse figure del diritto civile evidenziando come in virtù di una pattuizione civile aggiuntiva non possano mutare causa e natura del negozio giuridico. E allora il principio emerge inequivoco, dall'analisi della giurisprudenza della Corte di legittimità, la quale - ad esempio - ha ritenuto che:
a) il contratto di concessione del diritto d'uso (articolo 1021 del codice civile) non muta causa solo perché sia imposto un facere a carico del proprietario della cosa;
b) il contratto di associazione tra professionisti (ex lege 1815/1939) non muta causa solo perché preveda la possibilità che il singolo associato sia escluso per delibera unanime degli altri;
c) il contratto di deposito di generi alimentari deperibili non muta causa (in contratto d'opera) sol perché siano imposti obblighi di manutenzione ed avviso a carico del depositario;
d) il contratto di commission e non muta causa sol perché sia escluso il diritto del commissionario alla provvigione;
Alla luce di questi noti princìpi è agevole concludere che la sola pattuizione di una clausola di rischio cambio come quella oggetto del presente giudizio non può costituire, da sola, violazione dei doveri di correttezza e buona fede da parte di un intermediario creditizio o finanziario.