Lo sfruttamento della prostituzione è commesso ai danni della persona che si "vende" anche se c'è un accordo
Con la sentenza n. 2918/2021 la Corte di Cassazione ha fornito una lettura della legge Merlin che tiene conto della ratio fondante della disciplina
La "Legge Merlin (n. 75 del 1958) sanziona l'attività di favoreggiamento, reclutamento, induzione e sfruttamento della prostituzione, e statuisce che la pena è raddoppiata se il fatto è commesso "ai danni" di una persona avente rapporto d'impiego con l'autore del reato. Ebbene con la recente sentenza n.2918/2021 la Corte di Cassazione ha chiarito che la normativa in parola va "letta" tenendo conto della ratio fondante della disciplina che tutela la libertà sessuale dell'individuo. Invero la libertà di autodeterminazione sessuale della persona, pur rientrando nel catalogo dei diritti inviolabili evocati dalla Costituzione repubblicana, non consente di ritenere che la prostituzione volontaria partecipi della natura di detto diritto intangibile. Ciò in quanto – a ben vedere - l'offerta di prestazioni sessuali verso corrispettivo non rappresenta affatto uno strumento di tutela e di sviluppo della persona umana, bensì costituisce una particolare forma di attività economica, essendo la sessualità dell'individuo, in questo caso, nient'altro che un mezzo per conseguire un profitto. E l'interesse tutelato dalla norma penale – si badi - non è costituito né dalla pubblica morale, né dalla libertà morale di chi esercita il meretricio, bensì dalla "dignità" che, anche nello svolgimento dell'attività sessuale, è propria di ogni persona umana, e per la cui salvaguardia non valgono né possono valere forme di contrattazione o di atti di disposizione, i quali abbiano una rilevanza patrimoniale, o siano comunque suscettibili di dar luogo a vantaggi patrimoniali in capo a chi ne approfitti. Dal che deve rilevarsi che il soggetto la cui prostituzione è sfruttata da altri, è persona "offesa", è soggetto danneggiato, dal reato in parola: il reato di sfruttamento della prostituzione è quindi commesso "ai danni" della persona il cui meretricio si sfrutta, ancorché – accenta la Corte di piazza Cavour - tra sfruttatore e sfruttato vi sia "un accordo".
Il "modello regolamentarista"
Secondo una prima prospettiva l'ordinamento dovrebbe lasciare gli individui tendenzialmente liberi di praticare la prostituzione, di fruire del servizio sessuale e di agevolarlo. Si tratterebbe, semmai, solo di regolare opportunamente l'esercizio dell'attività, onde far fronte ai "pericoli" in essa insiti, analogamente a quanto avviene per tutte le attività economiche che comportino "rischi consentiti" dall'ordinamento (cd. "modello regolamentarista")
Il "modello proibizionista", il "modello neo-proibizionista", il "modello abolizionista"
Secondo diversa prospettiva la prostituzione costituirebbe un fenomeno da contrastare, anche penalmente, in ragione delle sue ricadute negative sul piano individuale e sociale. Tali ricadute si apprezzerebbero su una pluralità di versanti: quello dei diritti fondamentali dei soggetti vulnerabili; quello della dignità umana intesa in una accezione oggettiva, ossia come principio che si impone a prescindere dalla volontà e dalle convinzioni del singolo individuo; quello della salute, individuale e collettiva; quello, infine, dell'ordine pubblico tenuto conto delle attività illecite che frequentemente si associano alla prostituzione. In quest'ottica, la prostituzione viene quindi collocata nell'ambito di una disciplina "di sfavore" variamente calibrata, secondo chi si decida di punire: entrambe le parti del mercimonio sessuale (cd. "modello proibizionista); una sola di esse (cd modello "neo-proibizionista"); soltanto le condotte parallele alla prostituzione, ossia i comportamenti dei terzi che inducano la persona a esercitare tale attività (cd. "modello abolizionista).
Dalle "maisons de tolérance" alla Legge Merlin: No alla "industria del sesso"
La disciplina italiana della materia, anteriore alla Legge n. 75 del 1958, si ispirava al modello di origine francese, del "regolamentarismo classico" basato sul sistema delle «case di tolleranza» (maisons de tolérance). L'idea di fondo ad esso sottesa era che la prostituzione rappresentasse un "male necessario", non eliminabile, tuttavia suscettibile e meritevole di essere regolato a fini di tutela dell'ordine pubblico e della salute. Idea riflessa anche nel riferimento alla «tolleranza», che evidentemente compare nella definizione stessa. Nel nostro Paese, l'adeguamento ai principi "abolizionisti" ha avuto luogo con la legge Merlin (dal nome della proponente): legge il cui titolo recita significativamente «Abolizione della regolamentazione della prostituzione e lotta contro lo sfruttamento della prostituzione altrui». Invero la riforma muta radicalmente la prospettiva del modello preesistente. Oltre alle motivazioni di ordine più propriamente etico e morale si ritiene fondamentalmente, in linea con i ricordati principi abolizionisti, che la scelta di esercitare la prostituzione trovi normalmente la sua matrice in una condizione di "vulnerabilità", legata a cause individuali e sociali. Di qui la necessità che lo Stato si astenga dal rendersi compartecipe a ogni forma di "industria del sesso".
Dignità umana e sua "mercificazione"
La legge Merlin mette nel fuoco della tutela, su tutto, la "dignità della persona umana" impedendo non solo che nel nostro Paese possa esistere una prostituzione autorizzata e regolamentata, ma anche che ci siano degli esseri umani che vivano "negoziando legalmente" la stessa. Per l'integrazione del reato è, quindi, sufficiente un'attività di ricerca della persona da ingaggiare e di persuasione della medesima, mediante la rappresentazione dei vantaggi realizzabili esaudendo le richieste di prestazioni sessuali dei clienti; ancorché nell'ambito o nella "occasione" dell'esercizio, di altro, regolare e lecito, lavoro.
Il fatto commesso "ai danni" di persone aventi rapporti di servizio o d'impiego
Deriva che il reato di sfruttamento della prostituzione è commesso "ai danni" della persona la cui prostituzione è "sfruttata", nonostante tra sfruttatore e sfruttato vi sia un qualsivoglia "patto". In tale paradigma l'espressione "ai danni" contenuta nella legge in parola deve essere intesa come equivalente all'espressione "nei confronti" o "nei riguardi" altrui. A ben indagare dunque la locuzione "ai danni" non sta ad indicare un danno concreto, patrimoniale o anche morale, bensì intende esprimere una "offesa" verso la persona "utilizzata", che assume carattere di maggiore gravità quando sia posta in essere "nei confronti" di persone aventi rapporti di servizio o d'impiego.