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Locazioni commerciali chiuse causa Covid-19: Dpcm incostituzionali ma il conduttore moroso non può invocare la riduzione del canone

Continuano le decisioni di merito - di opposto tenore - sugli effetti che l'emergenza. Stavolta si pronuncia Roma

di Aldo Natalini

Covid-19, morosità del conduttore e pretesa eccessiva onerosità sopravvenuta della prestazione, ovvero pretesa impossibilità temporanea ad adempiere dovuta alle chiusure disposte durante il lockdown.

Continuano ad affiorare le decisioni di merito - di opposto tenore - sugli effetti che l’emergenza sanitaria da Sars-Cov-2 nei rapporti negoziali e, in particolare, rispetto ai contratti di locazione adibiti ad attività commerciale. Stavolta il Tribunale di Roma si pronuncia nel senso della non esperibilità degli ordinari strumenti di ripristino del sinallagma contrattuale.

Dunque, nessuna reductio ad equitatem del canone: la grave crisi scaturita dalla pandemia, che ha desertificato il centro storico delle nostre città, con conseguente contrazione delle vendite rispetto all’anno precedente, non è circostanza invocabile dal conduttore impossibilitato ad onorare il corrispettivo convenuto divenuto eccessivo.

Così la severa ordinanza n. 25283/2020 del 16 dicembre scorso che, acclarata la morosità del conduttore rimasto inadempiente a causa delle chiusure governative disposte nella fase 1 e 2 dell’emergenza sanitaria, ha disposto il rilascio di un immobile ad uso commerciale in rigorosa applicazione dell’articolo 665 del Cpc.

Pur prendendo atto che il legislatore emergenziale (articolo 216 del Dl Rilancio; articolo 91, comma 6-bis, del Dl n. 18/2020) ha riconosciuto la eccezionalità della situazione e le gravi ripercussioni che la pandemia ha comportato, il giudice capitolino esclude la vigenza di interventi legislativi idonei ad incidere in modo generalizzato sui rapporti locatizi di natura privata (come invece accaduto sui canoni degli impianti sportivi): anzi, al contrario, essendosi previsti sgravi fiscali, da un lato il governo ha declinato forme di intervento diretto nei rapporti tra privati, dall’altro ha indirettamente confermato la perdurante validità ed efficacia dei vincoli, rimettendo all’eventuale volontà delle parti - anche in previsione del periodo di difficile ripresa dello stesso mercato degli affitti, che potrebbe ex se spingere i locatari alla eventuale revisione al ribasso degli accordi - ogni eventuale possibilità di modifica.

 

L’illegittimità incidenter tamtum dei Dpcm: le ricadute sulla vertenze privatistiche

Particolarmente elaborata la motivazione adottata dal giudice capitolino.

L’assunto di partenza è che la pandemia non è di per sé condizione intrinsecamente impediente in termini assoluti l’adempimento di un rapporto negoziale, diversamente dal caso di scuola del crollo dell’immobile a seguito di terremoto o del crollo dell’unica via di accesso all’immobile a seguito di calamità naturale. Ciò perché - si legge nell’ordinanza qui pubblicata - ogni attività umana in astratto avrebbe potuto continuare a svolgersi nonostante l’emergenza sanitaria, dovendosi invece al complesso normativo-provvedimentale la compressione o addirittura l’eliminazione di alcune tra le libertà fondamentali dell’uomo, così come riconosciute sia dalla Carta Costituzionale che dalle Convenzioni Internazionali.

Muovendo da questa premessa, il giudice di prime cure passa poi a verificare se tale compressione fosse insuperabile (come nel factum principis) onde valutare quanto dedotto dalla parte ai fini della domanda (nella specie di sfratto per morosità).

Per il giudice capitolino l’istante si duole di una situazione non invincibile ex se, ma delle conseguenze derivanti da un impianto normativo-provvedimentale che è in contrasto con la Carta Costituzionale, e quindi certamente caducabile con conseguente eliminazione degli effetti negativi posti a base della pretesa stessa; ma non avendo la parte impugnato i Dpcm illegittimi, la stessa è stata in qualche modo causa delle conseguenze negative sulla piena fruibilità del bene immobile locato, in base alle quali oggi vorrebbe vantare la propria pretesa.

È a questo punto che il Tribunale di Roma sposa la tesi - radicale - dell’incostituzionalità dello strumento del Dpcm propugnata da diversi presidenti emeriti della Corte Costituzionale (Baldassare, Marini, Cassese, tutti menzionati) argomentando altresì diffusamente nel senso della sua totale illegittimità ravvisando tutti i possibili vizi dell’atto amministrativo: dalla violazione di legge (articolo 3 della legge n. 241/1990 in tema di obbligo di motivazione), anche di rango costituzionale (per contrasto con gli articoli da 13 a 22 e 77 della Costituzione), al difetto di istruttoria, dall’incompetenza all’eccesso di potere, passandosi per l’illogicità, la contraddittorietà, l’incomprensibilità, il difetto dei presupposti.

Il Tribunale laziale ravvisa incidenter tantum un’ipotesi di danno (non già da “emergenza sanitaria” bensì) da attività provvedimentale illegittima dopo aver richiamato ampi stralci motivazionali di un precedente del Giudice di pace di Frosinone (in fattispecie relativa ad opposizione a sanzione amministrativa elevata per violazione delle misure di contenimento disposte per Dpcm), secondo cui «non appare meritevole di accoglimento la tesi di chi invoca la legittimità di tali previsioni in virtù del rinvio a tali atti amministrativi, i Dpcm, da parte di decreti-legge, che avendo natura di atti aventi forza di legge equiparerebbero alla fonte legislativa i Dpcm evitandone in tal guisa la loro nullità e la conseguente disapplicazione da parte del Giudice Ordinario.

Ed in effetti, il Dpcm emanato il 26.4.2020, deriverebbe la sua efficacia dal Dl n. 192020, così come gli atti amministrativi della Regione Lazio. In ogni caso, la funzione legislativa delegata è disciplinata dall’articolo 76 Cost., il quale, nel prevedere “l’esercizio della funzione legislativa non può essere delegato al Governo se non con determinazione di principi e criteri direttivi” impedisce, anche alla legge di conversione di decreti legge la possibilità di delegare la funzione di porre norme generali astratte ad altri organi diversi dal Governo, inteso nella sua composizione collegiale, e quindi con divieto per il solo Presidente del Consiglio dei Ministri di emanare legittimamente norme equiparate a quelle emanate in atti aventi forza di legge. In conclusione, solo un decreto legislativo, emanato in stretta osservanza di una legge delega, può contenere norme aventi forza di legge, ma giammai un atto amministrativo, come le Ordinanze sindacali o regionali od il Dpcm, ancorché emanati sulla base di una delega concessa da un decreto-legge tempestivamente convertito in legge. Da ciò discende la illegittimità delle disposizioni del Dpcm del 26.4.2020, in G.U del 27.4.2020, n. 108».

Da ciò - nel quadro delle premesse decisorie del dictum in commento - discende l’illegittimità conclamata incidenter tantum dal decidente dei Dpcm che hanno imposto la compressione dei diritti fondamentali addotta quale causa eziologica dell’alterato equilibrio del sinallagma contrattuale.

 

La fattispecie: inesperibili gli strumenti correttivi del sinallagma contrattuale

In ultima analisi, per il Tribunale romano non sarebbero comunque esperibili nella fattispecie al vaglio i diversi strumenti giuridici astrattamente utilizzabili per la correzione di eventuali alterazioni del sinallagma contrattuale.

Non è invocabile la disciplina dell’impossibilità sopravvenuta ex articolo 1463 del CcNei contratti con prestazioni corrispettive, la parte liberata per la sopravvenuta impossibilità della prestazione dovuta non può chiedere la controprestazione, e deve restituire quella che abbia già ricevuta, secondo le norme relative alla ripetizione dell'indebito»)

Sul punto, il giudice capitolino reputa insussistente l’ipotesi nella fattispecie concreta: l’immobile infatti è stato occupato anche durante l’epidemia, e la prestazione corrispettiva (cioè il pagamento del canone) non può venir meno se non con l’ipotesi scuola del ritiro dei mezzi pagamento (moneta, moneta elettronica) utilizzabili. In sostanza entrambe le prestazioni hanno continuato ad essere possibili.

Viene anche esclusa l’impossibilità parziale sopravvenuta come prevista dall’articolo 1464 del Cc («Quando la prestazione di una parte è divenuta solo parzialmente impossibile, l’altra parte ha diritto a una corrispondente riduzione della prestazione da essa dovuta, e può anche recedere dal contratto qualora non abbia un interesse apprezzabile all'adempimento parziale»)Tale disposizione, in particolare, prevede la possibilità della riduzione della prestazione (canone), ma anche essa non ricorre nel caso concreto: innanzitutto non si può considerare la vicenda della emergenza sanitaria da agente virale SARS-Cov-2 (che ha come conseguenza la malattia denominata Covid-19) come una “prestazione di una parte (locatore) divenuta solo parzialmente impossibile”. In secondo luogo non può ritenersi violato l’obbligo del locatore di consegnare e mantenere il bene in condizione da essere utilizzato secondo l'uso contrattualmente stabilito ai sensi dell’articolo 1575 del Cc, non essendo riconducibile alcuna condotta di tale tipo al locatore, ma ad attività provvedimentale conseguente alla situazione di emergenza sanitaria di tipo pandemico. Infine, va considerato che la situazione di “impossibilità sopravvenuta parziale”, allo stato non ha le caratteristiche della definitività.

Per il giudice di prime cure, non può nemmeno ipotizzarsi l’impossibilità parziale sotto il diverso profilo di rendere la prestazione dovuta (canone) ripetibile in parte quando la stessa prestazione sia divenuta impossibile solo in parte, ai sensi dell’articolo 1258 del Cc. In questo caso il debitore (conduttore) si libera dall’obbligazione eseguendo la prestazione per la parte che è rimasta possibile. Anche qui, infatti, deve considerarsi che l’impossibilità parziale (ove fosse ipotizzabile), allo stato, non sarebbe comunque definitiva: superata l’emergenza, infatti, l’immobile sarà nuovamente e totalmente utilizzabile e comunque, anche durante l’emergenza sanitaria, lo stesso è stato occupato per la sua interezza da cose e beni del conduttore e dunque la limitazione non ha in realtà riguardato l’uso dell’immobile in sé.

Ancora, non è invocabile - ad avviso del Tribunale di Roma - neanche la impossibilità temporanea di adempiere alla propria obbligazione di cui all’articolo 1256 del Cc, invocabile astrattamente a seguito del provvedimento di chiusura delle attività commerciali di cui al Dpcm dell’11 marzo 2020 e seguenti. Va considerato, infatti, che il divieto di esercitare temporaneamente l'attività non determina l'impossibilità per il conduttore di utilizzare l'immobile, che è la prestazione dovuta dalla contro parte (locatore). Inoltre la mancanza degli incassi dovuta alla chiusura forzata dell’esercizio commerciale non determina l'impossibilità di adempiere alla propria obbligazione (canone), atteso anche che il periodo interessato non è tale da esulare dal c.d. rischio di impresa.

Infine, non ricorre nemmeno l’eccessiva onerosità sopravvenuta apprezzabile agli effetti dell’articolo 1467 del Cc. L’immobile ha conservato il proprio valore locativo nel periodo interessato e, comunque, l’onerosità deve attenere ad aspetti obiettivi e non alle condizioni soggettive (perdita di reddito, ad esempio) del conduttore. Tale soluzione, peraltro, potrebbe determinare solo la pretesa di risoluzione del contratto da parte del conduttore (evitando il preavviso di 6 mesi per gravi motivi) e sempre che il locatore, di fronte alla richiesta risoluzione, non «offra di modificare equamente le condizioni del contratto».

Anche in questo caso, tuttavia, va considerata la non definitività della situazione di crisi che determina l’eccessiva onerosità ed il periodo limitato di tempo consente di ritenere che si verta in ipotesi di ordinario rischio di impresa, che grava sul conduttore.

 

L’opposto indirizzo: impossibilità di godimento dell’immobile locato causa Covid-19

Nel variegato panorama della prima giurisprudenza di merito che si va formando sugli effetti della pandemia nei rapporti negoziali, in senso diverso dall’odierno decisum di recente si sono registrate pronunce favorevoli alle ragioni del conduttore, con riconoscimento del diritto ad ottenere la riduzione del canone di locazione ed un posticipo del pagamento dello stesso (Trib. Frosinone 7 agosto 2020 n. 9130, Trib. Roma 31 luglio 2020 n. 23871, Trib. Venezia 28 luglio 2020, secondo i quali la chiusura delle attività commerciali, nel periodo di lockdown da marzo a maggio 2020, a seguito dell’emergenza Covid-19, non costituisce un caso di impossibilità assoluta di godimento dell’immobile - come tale fondante il preteso diritto alla sospensione del pagamento - ma di una impossibilità soltanto parziale: questo perché i locali concessi in locazione sono rimasti comunque nella disponibilità del conduttore che, ad esempio, può averli usati come magazzino).

Lo stesso Tribunale di Roma con decisione del 27 agosto 2020 (in fattispecie relativa immobile locato adibito ad attività di ristorazione costretto a chiudere in conseguenza dell’emergenza sanitaria e, successivamente, a gestire la drastica riduzione del fatturato, in conseguenza delle misure di contenimento imposte), è giunto a determinare in via giudiziale l’ammontare della riduzione del canone sia per il “passato” sia per il “futuro”, stabilendo precisamente:

- per i mesi di aprile e maggio 2020: una riduzione del 40% del canone;

- fino a marzo 2021: una riduzione del 20% canone.

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