Civile

Medici dimenticano la sterilizzazione, la Asl paga per la gravidanza non voluta

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di Andrea Alberto Moramarco

La paziente danneggiata dalla omessa esecuzione di un intervento di sterilizzazione che successivamente si scopre incinta non è tenuta a sottoporsi alla interruzione volontaria della gravidanza, per evitare i danni conseguenti all'inadempimento della struttura ospedaliera. La scelta di abortire rientra nella libertà di autodeterminazione della madre e non può essere equiparata alla decisione iniziale di non voler procreare. In tal caso sarà la Asl a pagare le spese per il mantenimento del bambino. Questo è quanto emerge dalla sentenza 1298/2015 del Tribunale di Reggio Emilia.

La vicenda - I fatti all'origine della controversia risalgono al 2007 quando una cittadina straniera residente in Italia in occasione del suo quinto parto, programmato col taglio cesareo, aveva deciso di procedere contestualmente ad un intervento di sterilizzazione tubarica, al fine di evitare ulteriori gravidanze. La donna prestava il proprio consenso e si sottoponeva all'intervento. Dopo 6 settimane, durante una visita di controllo, ci si accorgeva però che la donna era nuovamente incinta. Per dimenticanza dei medici, infatti, l'intervento di sterilizzazione non era stato effettuato.

La richiesta di risarcimento - Dopo aver deciso di tenere il bambino e partorito per la sesta volta, la donna ed il marito citavano in giudizio i sanitari dell'ospedale chiedendo il risarcimento dei danni subiti, patrimoniali e non, per un totale di quasi 500mila euro in quanto «la nascita del sesto figlio aveva messo a dura prova la situazione economica ed umana della famiglia», oltre ad aver provocato uno stress fisico e mentale non indifferente pel donna ed in misura inferiore per il marito. Dal canto suo la Asl convenuta in giudizio si difendeva dicendo che la signora avrebbe dovuto controllare la lettera di dimissioni dall'ospedale dalla quale non risultava che l'intervento di sterilizzazione fosse stato eseguito e, ad ogni modo, «ben avrebbe potuto ricorrere all'interruzione volontaria» della gravidanza ai sensi della legge 194/78.

L'affermazione della responsabilità - Il Tribunale accoglie la richiesta risarcitoria e chiarisce che la vicenda non è riconducibile al paradigma della responsabilità medica, ma si tratta di una ipotesi più peculiare nella quale il danno (la gravidanza indesiderata) si è verificato per inadempimento contrattuale dei sanitari (il mancato intervento di sterilizzazione) per cui, una volta dimostrata l'esistenza del contratto ed allegato l'inadempimento dei medici, incombe su questi ultimi l'onere di provare che la prestazione sanitaria sia stata eseguita in maniera diligente.
Ciò per il giudice non è accaduto, non potendo ritenere sufficiente a scagionare l'ospedale il fatto che la lettera di dimissioni non riportava l'esecuzione dell'intervento richiesto. Né tantomeno può essere considerata la scelta della donna di non abortire, una volta saputo della nuova gravidanza: «l'esistenza, nel nostro ordinamento, di un diritto all'aborto – afferma il giudice - non comporta che tale diritto debba essere esercitato, ben potendo sussistere ragioni etiche, morali o religiose che impediscono tale scelta». A ciò va aggiunto che la scelta di non procreare e quella di abortire non possono essere messe sullo stesso piano per via delle conseguenze e ripercussioni fisiche e psicologiche che porre fine ad una gravidanza già iniziata può comportare su una donna. Pertanto - osserva il Tribunale - «non può certo richiedersi alla danneggiata di sottoporsi ad intervento di interruzione volontaria della gravidanza al fine di evitare i danni conseguenti alla mancata esecuzione della sterilizzazione, comportando l'intervento abortivo un evidente e rilevante sacrificio alla salute e alla libertà di autodeterminazione della madre».

La quantificazione del danno - Ciò posto, per il giudice la richiesta dei genitori è spropositata, o perlomeno non adeguatamente provata. Quanto al danno non patrimoniale, solo la donna ha provato il suo stato di stress e disagio «conseguente allo stravolgimento delle proprie aspettative e della “qualità” della propria vita a seguito e per l'effetto della nascita del sesto figlio», e ritenuto equivalente ad un danno liquidato in 20mila euro.
Quanto al danno patrimoniale, il Tribunale afferma che si tratta di una conseguenza immediata e diretta dell'inadempimento dei sanitari ed è costituito dalle «spese che i due genitori dovranno sostenere per il mantenimento del figlio fino alla sua indipendenza economica, che può presuntivamente farsi coincidere con il compimento del 23esimo anno di età». Non avendo poi informazioni sulla situazione reddituale e lavorativa svolta dagli attori, il giudice ha considerato congrua la «rendita» di 300 euro mensili per 12 mesi e per 23 anni, dato anche che «il sesto figlio, normalmente, può utilizzare il vestiario, le attrezzature e i libri già acquistati per i fratelli maggiori, consentendo ai genitori di giovarsi, in qualche misura, di “economie di scala”».

Tribunale di Reggio Emilia – Sezione civile – Sentenza 7 ottobre 2015 n. 1298

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