Professione e Mercato

Negligenza avvocato: il cliente deve dimostrarla

Il cliente deve non solo provarla, ma anche dimostrare come essa abbia influito sull'esito della lite

di Marina Crisafi

Avvocato negligente? Il cliente è tenuto a dimostrarlo nonché a provare come tale negligenza abbia influito sull'esito della lite. È quanto ha ribadito la sesta sezione civile della Cassazione (ordinanza n. 11737/2021), rigettando il ricorso di un uomo che rifiutava di pagare il compenso al proprio avvocato, ritenendo di aver perso la causa per colpa sua e chiedendo a sua volta i danni subiti per violazione dell'obbligo professionale.

La vicenda
Nella vicenda, l'uomo aveva incaricato il legale di instaurare una controversia nei confronti del figlio, originata da un rapporto di mandato intercorrente tra i due. L'avvocato notificava un atto di citazione, in pendenza del quale effettuava poi due richieste di sequestro conservativo, entrambe disattese dal tribunale. A seguito dell'esito negativo della cautela, l'uomo revocava il mandato e il difensore chiedeva il pagamento del compenso professionale che però non veniva corrisposto.
Da qui la citazione in giudizio da parte del difensore, mentre il cliente formulava a sua volta domanda riconvenzionale, al fine di far valere la responsabilità professionale dell'avvocato e vedersi riconosciuti i danni in un ammontare pari al compenso richiesto.
Il Tribunale di Lodi riteneva non provata la domanda riconvenzionale, che aveva ad oggetto la responsabilità professionale del difensore e dunque ritenendo provato lo svolgimento dell'incarico professionale, liquidava la somma richiesta come compenso, anche se ridotta rispetto alla pretesa iniziale.

Il ricorso in Cassazione
Non contento l'assistito ricorre con mezzo straordinario ex articolo 111 Costituzione avverso la decisione lamentando, tra l'altro, che la corte aveva statuito in modo apodittico negando senza motivazione che fosse stata data prova dell'errore professionale e della sua incidenza sull'edito della causa.
A dire dell'ex cliente, infatti, il giudice non aveva tenuto conto del fatto che:
- non era vero il deposito di un secondo ricorso per sequestro;
- che il difensore aveva ipotizzato erroneamente un valore della causa di 1 milione di euro;
- che la citazione conteneva la sola domanda basata sul mandato e non quella di arricchimento ingiustificato che, invece, secondo lui, sarebbe stata la più appropriata.

La negligenza va provata
La Cassazione però gli dà torto.
Come è ovvio, ricordano infatti dal Palazzaccio, "il cliente che assume una negligenza del suo difensore deve dimostrare non solo in cosa consista la negligenza, dunque la violazione dell'obbligo professionale, ma anche che essa ha influito sull'esito della lite, ossia che una diversa condotta avrebbe portato ad un risultato positivo".
Nella specie, tale prova è mancata.
E a nulla rileva, ai fini della responsabilità professionale, il fatto che non sia stato predisposto un secondo ricorso per sequestro. Né tantomeno il fatto che il valore della causa sia stato dichiarato come errato, elemento che semmai, proseguono gli Ermellini, confutando le tesi difensive punto per punto, "può incidere sul compenso, ma non certo sull'esito della lite". Né infine, la circostanza di non avere formulato domanda di arricchimento ingiustificato se non si dice perché tale omissione è stata decisiva.
In sostanza, il ricorso non riesce a contestare la ratio della decisione impugnata, in quanto non dimostra che elementi rilevanti per supportare l'asserita negligenza del difensore erano stati addotti e sono stati invece trascurati.
Da qui il rigetto del ricorso e la condanna del cliente anche al pagamento delle spese di lite del giudizio di legittimità.

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