Penale

No all’espulsione prevista dal “Dl Cutro” quando lo straniero è integrato

Lo ha stabilito la Cassazione, con la sentenza n. 43082 depositata oggi, chiarendo che l’espulsione, in alternativa al carcere, deve rispettare i criteri Cedu sulla vita privata e familiare

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di Francesco Machina Grifeo

Il “Decreto Cutro” non rende possibile, in alternativa alla detenzione, procedere all’espulsione dello straniero irregolare che abbia commesso un reato, se la misura si risolve in una ingerenza nella vita privata, che è tutelata dalla Cedu. Lo ha stabilito la Corte di cassazione, con la sentenza n. 43082 depositata oggi, accogliendo il ricorso di un tunisino contro l’ordinanza del Tribunale di sorveglianza di Catania che aveva confermato il decreto di espulsione a titolo di sanzione alternativa alla detenzione.

Il ricorrente, tra l’altro, aveva lamentato che la conferma della decisione era avvenuta a prescindere dalla “dimostrata integrazione nel tessuto sociale ed economico italiano” e del “ragionevole timore di essere sottoposto a persecuzione in caso di rimpatrio”.

E la prima sezione penale gli ha dato ragione affermando il principio di diritto per cui “l’espulsione dello straniero a titolo di sanzione alternativa alla detenzione, prevista dall’art. 16, comma 5, stesso Dlgs, non può essere disposta, al pari di ogni altra forma di espulsione di natura penale, quando tale misura si risolva in un’ingerenza nella vita privata e familiare dell’interessato, vietata dall’art. 8 della Convenzione EDU, come interpretato dalla Corte di Strasburgo”. E ciò “anche dopo l’approvazione del Dl 10 marzo 2023, n. 20, conv. dalla legge 5 maggio 2023, n. 50, al cui art. 7 si deve, tra l’altro, la riscrittura dell’art. 19, comma 1.1, Dlgs n. 286 del 1998 e l’abrogazione del suo terzo e quarto periodo”.

Per la Corte di Strasburgo, infatti, la totalità dei legami sociali tra gli immigrati radicati e la comunità in cui vivono costituisce parte del concetto di vita privata, e pertanto l’espulsione di un immigrato radicato costituisce un’ingerenza nell’esercizio di tale diritto, giustificata solo se proporzionata all’esito del bilanciamento tra il coefficiente di pericolosità del soggetto e il suo livello di integrazione nel consorzio sociale del Paese di accoglienza.

Principi questi ultimi prima recepiti dalla giurisprudenza di legittimità e poi tradotti in puntuali enunciati normativi che tuttavia, come visto, il Dl Cutro ha abrogato. Nella Relazione illustrativa al Ddl di conversione si legge che l’intervento mira a «una complessiva rivisitazione della disciplina della protezione speciale». È però da escludere – argomenta la Cassazione - che tale abrogazione “abbia la forza e rivesta il significato di scongiurare l’applicazione di norme e principi di valore sovraordinato e quindi di limitare l’incondizionata osservanza, nel diritto interno, degli obblighi nascenti dall’art. 8 CEDU”.

Si tratta, prosegue la decisione di una conclusione avvalorata dal quadro d’insieme che disciplina l’immigrazione. Il comma 1.1 dell’art. 19 d.lgs. n. 286 del 1998, nella parte superstite dopo l’intervento abrogativo, infatti, continua a vietare il respingimento, l’espulsione o l’estradizione di una persona verso altro Stato, «qualora ricorrano gli obblighi di cui all’articolo 5, comma 6» del medesimo d.lgs. (nel testo risultante dal d.l. n. 130 del 2020, conv. dalla legge n. 173 del 2020), che sono gli obblighi «costituzionali o internazionali dello Stato italiano». Tra questi ultimi risaltano, come si notava, gli obblighi di conformazione ai precetti della Convenzione EDU. È poi tuttora pienamente vigente, l’art. 2, comma 1, Dlgs n. 286 del 1998, a mente del quale «(a)llo straniero comunque presente nel territorio dello Stato sono riconosciuti i diritti fondamentali della persona umana previsti dalle norme di diritto interno, dalle convenzioni internazionali in vigore e dai principi di diritto internazionale generalmente riconosciuti».

E allora, continua la Cassazione, l’abrogazione disposta dal Dl Cutro “assume portata riduttiva, incidendo solo e piuttosto sulla selezione dei criteri di valutazione che presiedono al bilanciamento (imposto dall’art. 8 CEDU) degli interessi in gioco, posto che quelli esplicitati dal legislatore del 2020 (durata della presenza dello straniero sul territorio nazionale, effettività dei vincoli familiari, suo effettivo inserimento sociale, esistenza di legami familiari, culturali o sociali con il Paese d’origine) sono stati espunti dal sistema”. Quest’ultimo perde così, in proposito, i tratti di tipicità, ma anche di inevitabile rigidità, che era venuto ad assumere. E allora l’interprete “dovrà, d’ora innanzi, fare diretto riferimento ai criteri - largamente sovrapponibili, ma soggetti alla flessibile mediazione giudiziale - elaborati dalla giurisprudenza sovranazionale, già richiamati e fatti propri dagli arresti di questa Corte di legittimità”.

Non è inutile allora ribadire che, secondo la Corte di Strasburgo, se l’art. 8 della Convenzione non prevede un diritto assoluto di non espulsione per nessuna categoria di stranieri, “esistono circostanze in cui l’espulsione medesima si dimostra non necessaria in una società democratica e non proporzionata al legittimo obiettivo perseguito, comportando così la violazione di tale disposizione”.

Ed è altresì importante ricordare, conclude la Corte, che tra i criteri, considerati dalla Corte EDU pertinenti per valutare se una misura di espulsione sia lecita rispetto al parametro convenzionale, vanno annoverati, tra l’altro, la natura e la gravità del reato commesso dal richiedente, la durata del soggiorno del richiedente nel paese dal quale deve essere espulso, la situazione familiare del richiedente, la gravità delle difficoltà che il richiedente potrebbe incontrare nel paese verso cui deve essere espulso.

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