Penale

No all’utero in affitto anche se la madre non riceve alcun compenso

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di Giorgio Vaccaro

No all'utero in affitto. La sesta sezione penale della Corte di cassazione - con la sentenza n. 2173, depositata il 17 gennaio 2019 (consigliere relatore Amoroso) - ha condannato anche la madre naturale per il reato di affidamento a terzi di un minore, in violazione dell'articolo 71, comma 1, legge 184/1983, anche se non ha ricevuto alcun compenso.

La controversia
La Corte ribadisce infatti la centralità e l’importanza della norma che regola la disciplina sulle adozioni nel tutelare il diritto dei minori e così reprimere ogni condotta volta a superare la centralità della sua figura, rispetto ai desideri degli adulti. Nel caso de quo si è affrontato il ricorso presentato avverso la decisione della Corte d’appello di Napoli che aveva confermato la condanna degli imputati per aver tra loro «partecipato ad un accordo con cui un medico ginecologo, dietro corrispettivo di una somma di danaro, pattuita in 30mila euro» aveva promesso a una coppia l’affidamento di un nascituro, non appena questo fosse stato partorito, con l’intesa ulteriore di alterare lo stato di nascita del neonato, in modo che risultasse figlio naturale di questa coppia.

L’accordo, rammenta la sentenza, «si concretizzava senza che venisse portato a compimento la concordata alterazione dello stato di nascita, con la falsificazione del nome della madre naturale, per un imprevisto sopravvenuto» che non aveva consentito al medico di alterare le carte di nascita trasmesse – correttamente - dall’amministrazione del presidio sanitario al Comune. Il ricorso in Cassazione era proposto dalla madre naturale, che chiedeva la riforma della sua condanna sul presupposto che fosse da limitare alle sole condotte realizzatesi all’interno di una procedura di adozione, «mentre resterebbero fuori dalla tipicità dell’incriminazione le condotte elusive» come quella posta in essere dalla partoriente, che non aveva ricevuto danaro come compenso

Il ricorso è stato presentato anche dall’uomo, compagno della donna a cui era stato consegnato il neonato a seguito del pagamento di una somma di danaro, che lamentava di non aver partecipato al pactum sceleris, per essere intervenuto solo successivamente ad aiutare l’amica che aveva preso in consegna il neonato, così che questa potesse recuperare il danaro incassato dal medico, truffaldinamente e senza causale, perché «non aveva portato a compimento l’alterazione dello stato di nascita».

La pronuncia della Suprema corte
La sesta sezione penale nel rigettare tutte le ipotesi di riforma osserva come, rispetto ai temi di cui sopra (estraneità ai fatti e truffa), non possa non condividersi la lettura delle prove posta in essere dai giudici di appello, che espressamente osservano come l’uomo fosse ben a conoscenza sin dall’inizio del piano delittuoso e come nessuno possa dolersi di una ipotesi di truffa, trattandosi in questo caso (mancata alterazione di un atto di nascita) di «inadempimento di un accordo illecito nella causa».

Quanto alle censure avanzate dalla madre naturale, la fattispecie di delitto punita dall’articolo 71 della norma sulle adozioni (legge 184/83) «non richiede affatto - osserva la Corte - che l’affidamento illegale del minore sia avvenuto nell’ambito di una procedura formale di adozione, né è richiesto, per colui che affida il minore, la previsione di un compenso economico, come corrispettivo della consegna del minore stesso». E ancora: «l’articolo 71, comma 1, della legge 184/1983 punisce con la reclusione da uno a tre anni, chiunque, in violazione delle norme di legge in materia di adozione, affida a terzi con carattere definivo un minore, ovvero lo avvia all’estero perché sia definitivamente affidato, senza ulteriori condizioni ai fini della integrazione del reato».

In buona sostanza, il corrispettivo di danaro non è condizione del reato per colui che ceda il minore o comunque si ingerisca nella sua consegna, essendo previsto anche un aggravamento della pena nel caso in cui il fatto sia commesso dal genitore. La ratio legis che ribadisce la Suprema corte è evidente: «chi affida illegittimamente il minore viola sempre l'interesse del minore ad un affidamento nel rispetto di tutte le condizioni poste dalla norma a sua tutela», con ciò confermando come proprio la disciplina normativa vigente sia argine primo a ogni ipotesi di liceità delle pratiche di utero in affitto nel nostro Paese, che prevede, nella primaria tutela di ogni figlio a godere della propria madre, un aggravamento della pena se a provvedere alla sua “cessione” sia stata la genitrice, e questo anche in assenza di un corrispettivo economico.

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