Responsabilità

"Non assumo gay", Associazioni (anche di avvocati) LGBTI legittimate a chiedere il risarcimento

La Cassazione, ordinanza 28646 depositata il 15 dicembre, respinge il ricorso dell'avvocato Taormina contro Rete Lenford

di Francesco Machina Grifeo

Dopo aver interpellato in via pregiudiziale la Corte Ue, la Cassazione, ordinanza n. 28646 depositata il 15 dicembre, afferma con un pronunciamento privo di precedenti, la legittimità di un'Associazione per la tutela dei diritti LGBTI – nel caso, Rete Lenford – ad agire in giudizio per la tutela e il risarcimento del danno a seguito di affermazioni discriminatorie in materia di occupazione espresse nel corso di un programma radiofonico.

Al centro della vicenda le affermazioni dell'avvocato Taormina, professore universitario e già esponente politico di primo piano, nel corso della trasmissione "La Zanzara", secondo cui non avrebbe assunto né si sarebbe avvalso nel proprio studio della collaborazione di persone omosessuali. Prima il Tribunale e poi la Corte di appello di Brescia, ritenuto il carattere discriminatorio delle affermazioni, lo hanno condannato al pagamento di 10mila euro, e alle spese di lite, oltre alla pubblicazione delle sentenza sui quotidiani.

Nel ricorso Taormina ha posto diverse questioni tra cui quella della automatica legittimazione ad agire di una Associazione di avvocati specializzati che nel proprio statuto dichiari di voler promuovere il rispetto dei diritti di una determinata categoria. Interpellati sul punto, i giudici di Lussemburgo hanno chiarito che nella nozione di "accesso al lavoro" della Direttiva 2000/78/CE, vi rientrano anche le affermazioni rese in una trasmissione audiovisiva secondo le quali mai si assumerebbe o ci si avvarrebbe, nella propria impresa, della collaborazione di persone di un determinato orientamento sessuale, "e ciò sebbene non fosse in corso o programmata una procedura di selezione di personale", purché però il collegamento tra le dichiarazioni e l'accesso non sia meramente ipotetico. Dopodiché, la Cgue ha aggiunto che la direttiva "non osta ad una normativa nazionale" che prevede la legittimazione di un'associazione di avvocati, la cui finalità statutaria consista nel difendere in giudizio le persone aventi segnatamente un determinato orientamento sessuale.

Nessun impedimento in definitiva a che l'associazione esponenziale raccolga le adesioni di avvocati con la finalità statutaria di difendere in giudizio le persone caratterizzati da un certo orientamento sessuale (LGBTI) piuttosto che associare persone di quell'orientamento. In questo senso il Dlgs 216/2003, attuativo della direttiva, ha fornito la legittimazione ad agire non solo "a tutela di soggetti individuabili, ma anche in presenza di discriminazioni collettive".

Per la I Sezione civile, dunque, le norme italiane costituiscono "esplicazione della facoltà riconosciuta agli Stati membri di concedere una tutela più incisiva rispetto agli atti discriminatori in ambito lavorativo, attribuendo - nel caso in cui si verifichino fatti idonei a costituire una discriminazione, nei confronti della citata categoria di persone e non sia identificabile una persona lesa - la legittimazione attiva ad avviare un procedimento giurisdizionale inteso a far rispettare gli obblighi risultanti dalla direttiva e, eventualmente, ad ottenere il risarcimento del danno a un'associazione che sia rappresentativa del diritto o dell'interesse leso".

Mentre il requisito della rappresentatività dell'ente, per il quale non è stabilito alcun controllo preventivo, "deve essere verificato dal giudice del merito sulla base dell'esame del suo statuto, che deve contemplare la previsione univoca del perseguimento della finalità di tutela dell'interesse collettivo assunto a scopo dell'ente, e del suo concreto operato, con un accertamento fattuale".

Correttamente dunque la Corte bresciana ha ritenuto che il contenuto discriminatorio fosse rinvenibile "nel pregiudizio, anche solo potenziale, che una categoria di soggetti potrebbe subire in termini di svantaggio o di maggiore difficoltà, rispetto ad altri non facenti parte di quella categoria, nel reperire un bene della vita, quale l'occupazione». E la stessa Corte, con valutazione incensurabile in Cassazione, ha poi ritenuto che le dichiarazioni rese dall'avv. Taormina nell'intervista radiofonica abbiano integrato "espressioni idonee a dissuadere gli aspiranti candidati omosessuali dal presentare le proprie candidature allo studio professionale dell'odierno ricorrente, così ostacolandone e/o rendendo maggiormente difficoltoso l'accesso al lavoro".

Del resto, prosegue la decisione, Taormina non era un datore di lavoro «meramente ipotetico». Egli infatti era titolare delle studio professionale dove esercitava la professione forense; mentre non rileva che percepisse una pensione, "visto che egli era dichiaratamente ancora attivo", oltre a costituire "la figura di un avvocato molto noto e titolare di uno studio, che rivela pubblicamente la propria scelta programmatica in tema di politica di assunzioni nel suo studio".

Infine, la libertà di manifestare il proprio pensiero con qualsiasi mezzo di diffusione garantita dalla Costituzione, "non ha natura di diritto assoluto e pertanto non può spingersi sino a violare altri principi costituzionalmente tutelati, quali, nella specie, gli artt. 2, 3, 4 e 35 Cost. che tutelano la parità di trattamento in materia di occupazione e di lavoro e la realizzazione di un elevato livello di occupazione e di protezione sociale".

La Corte ha così rigettato il ricorso compensando le spese processuali "per la novità delle questioni in tema di legittimazione attiva alla proposizione dell'azione in tema di discriminazione e di necessità del collegamento fra le dichiarazioni discriminatorie e una procedura di assunzione in atto, su cui non constavano precedenti e che hanno reso necessaria la proposizione alla Corte di Giustizia dell'Unione Europea di una questione pregiudiziale interpretativa ex art.267 TFUE".

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