Civile

Novità di case law: un infruttuoso caso di opposizione all’esecuzione di una sentenza straniera

Nota a Tribunale di Bergamo, Sez. II Civile, Decreto 22 gennaio 2025

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di Gianfranco Di Garbo*

Il decreto del Tribunale di Bergamo del 22.1.2025 (RG 7092/94) ci dà l’occasione di analizzare un tema di diritto internazionale non dibattuto in giurisprudenza.

Si tratta di una applicazione dell’art. 67 della Legge di riforma del diritto internazionale privato (n. 218/1995), che da ormai trent’anni consente con facilità l’esecuzione in Italia di sentenze rese in qualsiasi stato del mondo, imponendo requisiti di ammissibilità uguali per tutti e superando un sistema che, anteriormente alla riforma, doveva fare affidamento su molteplici convenzioni multilaterali o bilaterali, oggi relegate a un utilizzo residuale e limitato, con esclusione dei paesi membri della Comunità Europea.

Nel caso di specie l’attore, cittadino indiano e ivi residente, chiedeva la esecuzione in Italia di una sentenza in materia di lavoro resa da un tribunale americano, confermata in appello, dopo un lungo processo, contro un cittadino italiano.

Contando su una celere esecuzione in Italia, il cittadino indiano, dopo aver invano tentato di ottenere l’esecuzione in via spontanea della sentenza americana, in mancanza di ottemperanza proponeva ricorso ex art. 702 bis C.p.C. alla Corte di Appello di Brescia, invocando l’art. 67 della l. 218/1995.

Nonostante numerose eccezioni di parte resistente, il ricorso veniva accolto e la Corte d’appello di Brescia riconosceva esecutiva in Italia la sentenza pronunciata negli USA.

Il creditore iniziava prontamente l’azione esecutiva e, scaduto il termine del precetto, eseguiva un pignoramento presso una Banca italiana, con esito positivo. Nel frattempo il debitore proponeva ricorso in Cassazione e, nelle more, chiedeva alla Corte d’Appello di Brescia di sospendere l’esecuzione della ordinanza ex art. 373C.p.C., allegando il grave e irreparabile danno, sostenendo che i motivi di impugnazione erano ben fondati (fumus, elemento spesso peraltro ritenuto non necessario nella procedura ex art. 373 C.p.C.) e che la residenza in India del debitore avrebbe reso molto difficile recuperare quanto nel frattempo fosse stato pagato nel corso della procedura esecutiva, in mancanza di una convenzione tra l’Italia e l’India (periculum aggravato dall’”irreparabile danno” di cui all’art. 373).

La Corte d’Appello di Brescia, ignorando i motivi di cui sopra, respingeva l’istanza di sospensione formulata dal debitore, dichiarandola d’ufficio inammissibile perché l’ordinanza impugnata “contiene una pronuncia dichiarativa, non suscettibile di esecuzione forzata, sicché l’unico capo suscettibile di esecuzione è quello relativo alla condanna al pagamento delle spese di lite [...]”.

La sintetica e ambigua ordinanza della Corte offriva il destro alla difesa del debitore di impostare una opposizione ex art. 615 c.p.c. davanti al Giudice dell’esecuzione, chiedendo disporsi inaudita altera parte la sospensione del processo esecutivoe, nel merito, dichiarare l’insussistenza del diritto del creditore di procedere all’esecuzione forzata, sfruttando arditamente l’argomentazione con cui la Corte aveva rigettato la sospensione dell’esecuzione. Il Tribunale di Bergamo sospendeva temporaneamente l’esecuzione ma successivamente, dopo l’udienza di discussione, rigettava l’opposizione disponendo la prosecuzione del processo esecutivo e dando al debitore il termine per iniziare il giudizio di merito. Contro l’ordinanza il debitore proponeva reclamo al Tribunale, che, avallando il provvedimento del Giudice dell’Esecuzione, respingeva il ricorso con il decreto che si commenta.

La tesi esposta dal debitore è che l’azione esecutiva avviata fosse illegittima e dovesse essere revocata in quanto l’ordinanza di cui al 702 bis cpc della Corte d’Appello sarebbe una ordinanza meramente dichiarativa o di accertamento e, in quanto tale, non potrebbe avere efficacia anticipatoria rispetto al momento del suo passaggio in giudicato, che sarebbe avvenuto soltanto dopo la decisione del ricorso in Cassazione.

La tesi è suggestiva, ma trascura di considerare che il procedimento di cui all’art. 67, comma secondo, della legge n. 218 del 1995, non ha ad oggetto la medesima domanda proposta nel giudizio in cui è stata emessa la sentenza di cui si chiede il riconoscimento, ma solo la dichiarazione dell’efficacia di tale sentenza nell’ordinamento italiano.

Riteneva infatti il Tribunale, nel respingere il reclamo, che l’art. 67 della L. 218/1995 “afferma il principio incontrovertibile per cui l’efficacia esecutiva è propria della sentenza , mentre il provvedimento di riconoscimento emesso dalla Corte d’Appello costituisce mero atto integrativo, non dotato di efficacia esecutiva autonoma, fatta eccezione – come poi affermato in sede di decisione del ricorso ex art. 373c.p.c – per gli specifici capi condannatori relativi al giudizio ex art. 67 legge n. 218/1995.”

L’ordinanza fa giustizia dell’ambigua decisione della Corte d’Appello che, pur respingendo la richiesta di sospensione affermando correttamente la natura dichiarativa della dichiarazione di esecutività ex art. 702-ter c.p.c., non aveva completato la motivazione con il passo logico successivo, e cioè che la natura dichiarativa dell’ordinanza non si trasferisce sulle medesime sentenze di cui dichiara l’esecutività che, proprio in virtù di tale dichiarazione, hanno e mantengono piena efficacia esecutiva anche in Italia.

“La funzione delprocedimento ex art. 67 legge n. 218/1995 – soggiunge infatti il Tribunale - non è, pertanto, quella di valutare se la sentenza straniera è o meno esecutiva, perché essa lo è a prescindere, essendo già passata in giudicato nel proprio ordinamento, ma solo di accertare l’esistenza dei requisiti di diritto internazionale privato perché l’esecutività– si ribadisce, già esistente – possa operare anche in Italia, cosicché la pronuncia che riconosce l’esistenza di tali requisiti ha il solo effetto di consentire l’azionamento della sentenza straniera anche nel nostro ordinamento, senza ulteriori valutazioni di alcun tipo. In altre parole, l’azione di delibazione di una sentenza straniera di condanna è un’azione autonoma, tendente ad una pronuncia ad effetti meramente processuali, con la conseguenza che una volta introdotta nell’ordinamento italiano con la pronuncia formale di delibazione, la sentenza straniera produce gli effetti sostanziali da essa dipendenti e diviene essa stessa, in quanto riconosciuta, suscettibile d’esecuzione (Cass. Civ. Sez. Un. 01.10.1996 n. 8590)”.

Sotto questo profilo non si può che convenire con il dictum: la controversia risolta dal giudice straniero è definitiva per effetto del passaggio in giudicato della relativa sentenza, che altrimenti non potrebbe essere dichiarata esecutiva ex art. 67 L.184/1995! E’ proprio il passaggio in giudicato della sentenza straniera, infatti, che costituisce il presupposto unico e necessario del riconoscimento, sicché il procedimento di delibazione, come riscritto dalla legge del 1995, non può considerarsi in alcun modo una fase ulteriore o comunque una prosecuzione del giudizio svoltosi all’estero.

La tesi è avvalorata dall’orientamento della Corte di Cassazione, che, pur non essendosi pronunciata su questo specifico punto, ne aveva già posto le solide basi sostenendo che l’istanza ex art. 67 costituisce un’azione autonoma, tendente ad una pronuncia dagli effetti meramente processuali, come tale distinta sia dall’actio iudicati nascente dalla sentenza straniera (perché non mira semplicemente all’esecuzione, ma ad un effetto più ampio per la sua natura e più ristretto per il suo ambito territoriale: cioè alla dichiarazione di efficacia giuridica in Italia), sia dall’azione spettante in base alla titolarità del diritto che connota il rapporto giuridico fondamentale (perché non ha per oggetto il rapporto sostanziale ma esclusivamente l’idoneità della sentenza straniera a spiegare efficacia nell’ordinamento italiano, sicché è il giudicato straniero che continua a produrre gli effetti esecutivi, gli effetti del giudicato e tutti gli altri eventuali effetti che sono propri dell’atto giurisdizionale (Cass. n.1882 del 1993,; Cass., Sez., Un. 01/10/1996, n. 8590 cit; Cass.09/05/2018, n. 11198 e Cass. civ., Sez. III, Sent. n. 15023 del 29/05/2023).

Bisogna infatti distinguere il riconoscimento della sentenza straniera dalla sua esecuzione. Il primo effetto, che fu uno degli aspetti più innovativi della riforma del sistema del diritto internazionale privato, discende automaticamente dalla pronuncia straniera, che è per legge riconosciuta dall’ordinamento italiano. Soltanto in caso di mancata ottemperanza o quando sia necessario procedere all’esecuzione forzata di tale sentenza, già presente nell’ordinamento, le condizioni di cui all’art. 67 L. 218/1995 devono essere accertate dalla Corte d’appello in modo da far valere gli effetti esecutivi del giudicato formatosi all’estero.

L’ordinanza che riconosce l’esecuzione non è di accertamento costitutivo, ma di accertamento mero, in merito alle quali la Cassazione ha già precisato che non sempre sono insuscettibili di esecuzione immediata, per esempio quando si tratti di “sentenze di rigetto dell’opposizione all’esecuzione (come, del resto, in genere ogni sentenza di rigetto della domanda e la stessa sentenza di accoglimento dell’opposizione, quale sentenza di accertamento)” (Cass n. 24447/2011).

La decisione della Corte d’Appello fa tutt’uno con il titolo straniero (art. 67 secondo comma: “La sentenza straniera … unitamente al provvedimento che accoglie la domanda …costituiscono titolo per l’attuazione dell’esecuzione forzata”) e la sua funzione è solo quella di accertarne i requisiti formali di res iudicata, che sono ad essa preesistenti e che si sono prodotti automaticamente ope legis.

Trattasi quindi di una pronuncia di natura eminentemente processuale, mentre la sentenza che va eseguita è il suo oggetto: è quest’ultima che contiene la condanna, che va eseguita, e non l’ordinanza di Corte d’Appello, che ne costituisce il mero presupposto.

Non è questa la sola ipotesi nella quale un provvedimento giurisdizionale accoglie la domanda principale costitutiva e/o dichiarativa senza includere espressamente nel dispositivo una espressa statuizione di condanna. La Corte di Cassazione ammette infatti questa fattispecie ampliando talvolta a tale provvedimento la natura di titolo esecutivo. Si veda il precedente in tema di sentenza che costituisce coattivamente una servitù di passaggio che non contenga espressamente la condanna ad ammettere il titolare nel materiale possesso del diritto: “Per quanto la sentenza in questione sia costitutiva – scriveva la Corte in quel caso - la funzione della stessa è caratterizzata da un’esigenza di esecuzione, che non può trovare altra alternativa che ritenere che la sentenza contenga – per la struttura del diritto sostanziale azionato – una condanna implicita al rilascio” (Cass.,Sez. III, 26 gennaio 2005, n. 1619 (est. Segreto), in Corr. giur., 2005,1229 ss., con nota di C. Petrillo).

La decisione che si commenta è quindi anche coerente con il sistema: la condanna al pagamento delle somme contenute nella sentenza americana è implicita e consequenziale rispetto alla pronuncia principale di riconoscimento e dichiarazione di esecutività e, in quanto tale, deve essere considerata immediatamente esecutiva, dovendo ritenersi privata altrimenti di qualsivoglia valore l’ordinanza de qua.

Da censurare è tuttavia la opacità della decisione della Corte d’Appello: è vero infatti che l’ordinanza di delibazione non fosse da sola suscettibile di esecuzione forzata, ma non perché fosse una pronuncia di accertamento, ma perché destinata a costituire, insieme con la sentenza straniera che ne era l’oggetto, titolo immediatamente esecutivo, come tutte le sentenze di condanna.

La pendenza del giudizio di Cassazione, peraltro, rendeva comunque ammissibile in linea teorica il ricorso per la sospensione della sentenza ex art. 373 nell’ipotesi che fosse provato il “grave ed irreparabile” danno.

La Corte d’Appello, dichiarando inammissibile il ricorso con la insufficiente motivazione che trattavasi di sentenza dichiarativa, ha sostanzialmente negato al resistente la possibilità di far valere qualsiasi ragione di sospensione, e cioè quel grave e irreparabile danno, in presenza del quale l’art. 373 C.p.c. consente in ogni caso il rimedio della sospensione dell’esecuzione, che quindi doveva ritenersi ammissibile nei confronti dell’endiadi titolo straniero più ordinanza delibativa, o tutt’al più respinto in base a quell’orientamento che esclude dalla possibilità di sospensione le sentenze che abbiano ad oggetto la condanna al pagamento di una somma di danaro, bene fungibile di cui è sempre possibile la restituzione (sul punto si veda Corte d’Appello Milano, 10.1.2017 –RG 5122/2016).

Né varrebbe opporre che il titolo straniero fosse passato in giudicato negli USA, perché è l’ordinanza della Corte d’Appello che conferisce al titolo la esecutività in Italia e in linea teorica la Cassazione avrebbe potuto censurare tale decisione per mancanza dei presupposti di cui all’art.67 L. 218/1995 (a onor del vero peraltro eccepiti dal resistente davanti alla Suprema Corte). Sia la Corte d’Appello, pertanto, con l’ordinanza ex art. 373 C.p.C., sia il Tribunale, con il decreto che abbiamo commentato, hanno assunto un approccio formalmente corretto, ma insufficiente per respingere la domanda di sospensione, il che avrebbe potuto tradursi in diniego di giustizia, anche se nel caso di specie la Cassazione ha finito poi per respingere il ricorso di legittimità, relegando la questione a semplice accademia.

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*Gianfranco Di Garbo (Avvocato in Milano)

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