Nuova ordinanza cautelare, il rimedio impugnatorio è l’istanza di riesame
Lo hanno affermato le Sezioni unite della Cassazione, con la sentenza n. 44060 depositata oggi, accogliendo il ricorso dell’imputato ed affermando un principio di diritto
Più spazio al diritto di difesa e alla celerità della decisione, in linea con la Cedu, per chi venga sottoposto a una nuova (autonoma) misura cautelare. “Nel caso in cui l’imputato, nei confronti del quale sia stata emessa ordinanza applicativa della custodia cautelare in carcere, divenuta inefficace per il proscioglimento pronunciato all’esito del giudizio di primo grado, venga successivamente sottoposto, ai sensi dell’art. 300, comma 5, cod. proc. pen., a nuova applicazione della custodia in carcere, il rimedio che egli può esperire per impugnare la relativa ordinanza è quello dell’istanza di riesame ex art. 309 cod. proc. pen.” e non dunque l’appello cautelare. È questo il principio di diritto affermato dalle Sezioni unite della Cassazione, con la sentenza n. 44060 depositata oggi, accogliendo il ricorso dell’imputato.
Sulla questione rimessa dalla Prima sezione penale, la Cassazione registra un “arcipelago frammentato di isole decisorie” mai “realmente sedimentato” che suggerisce di individuare una “più solida e coerente chiave di lettura” con cui interpretare i fenomeni estintivi delle misure coercitive originariamente applicate e quelli, eventualmente, successivi, concernenti l’emissione di una “nuova” misura in relazione allo “stesso fatto”.
Tirando le fila del ragionamento, al termine di una complessa dissertazione, il Collegio ritiene che l’ordinanza emessa ai sensi dell’articolo 300, comma 5, cod. proc. pen., non possa considerarsi quale semplice “reviviscenza” dell’ordinanza genetica, poi caducata, presentando al contrario “indubbi aspetti di novità” ed “autonomia” tali da giustificare, per la sua impugnazione, l’attivazione del procedimento di riesame.
In questa direzione, del resto, depongono: a) il carattere di forte cesura impresso alla primigenia vicenda cautelare dalla sentenza di assoluzione in primo grado; b) la componente di “novità” intrinseca nel giudizio di appello e nella condanna che ribalti la pronuncia assolutoria; c) l’omologia dei criteri valutativi e delle regole che il giudice emittente l’ordinanza è tenuto ad applicare rispetto ai criteri e alle regole imposti al giudice emittente la misura cautelare; d) l’esigenza di evitare irragionevoli discriminazioni, nell’opzione dello strumento di tutela, tra medesime situazioni di fatto.
Non solo, il principio espresso è coerente con il carattere “pacificamente residuale dell’appello ex art. 310 cod. proc. pen.” e con il corrispondente favor espresso dal legislatore per lo strumento del riesame, nell’ottica di una più ampia (mezzo pienamente devolutivo, non condizionato dalla necessità di formulare specifici motivi) e celere (decisione del tribunale in tempi serrati) tutela del diritto effettivo di difesa. Esso, inoltre, si rivela del tutto adeguato anche in un’ottica di esegesi orientata costituzionalmente (articoli 3, 13, 24 e 111 Cost.) e convenzionalmente.
In questo senso, ricorda la decisione, si muove anche il disposto dell’articolo 5, par. 4, CEDU, secondo il quale «Ogni persona privata della libertà [ ... ] ha diritto di presentare ricorso a un tribunale affinché decida entro un breve termine sulla legittimità della sua detenzione C...]».
Per le S.U. dunque non è arbitrario affermare che un simile principio, trascendendo il caso di specie, “possa fornire all’interprete le chiavi di lettura utili a riconoscere i casi in cui sia consentito parlare di ‘nuova’ misura cautelare, suscettibile di essere impugnata con l’istanza di riesame”. In particolare, per il Collegio può parlarsi di “nuova” misura, impugnabile con istanza di riesame, tutte le volte che la misura originariamente applicata venga caducata, per qualsivoglia ragione, e ne venga emessa una successiva, autonoma dalla prima, ossia non condizionata dalla precedente vicenda cautelare.
Se questa è la regola non mancano certo le eccezioni, quelle cioè in cui la forma di contrasto è l’appello, e la sentenza le ripercorre una per una, anche considerato che vengono indicate espressamente dal Legislatore. È previsto l’appello: a) per la proroga dei termini di custodia cautelare (si prevede l’appellabilità dell’ordinanza di proroga); b) per la “rinnovazione” di misura cautelare disposta per esigenze probatorie; c) nei casi previsti dall’articolo 307, comma 2, lettere a) e b), Cpp, atteso che l’uso del termine “ripristina” da parte del legislatore, riferito alla custodia cautelare, consente di ritenere ravvisabile uno stretto collegamento con la misura originariamente applicata; d) nel caso previsto dall’articolo 307, comma 4, cod. proc. pen., in quanto afferente a un episodio di trasgressione alle prescrizioni.
Proprio perché si innestano, come eventi modificativi, sulla stessa misura cautelare inizialmente applicata, devono reputarsi, infine, pacificamente appellabili i provvedimenti di aggravamento delle misure previsti dagli articoli 276 e seguenti cod. proc. pen.
Una nuova misura, viceversa, deve ritenersi quella emessa per decorrenza dei termini di carcerazione (ai sensi dell’articolo 307, comma 1, cod. proc. pen.), perciò soggetta al procedimento di riesame ex articolo 309 cod. proc. pen. e non all’appello cautelare.
In definitiva, osserva la Corte, considerato che nel caso specifico non è in discussione l’identità del fatto, la generica impugnazione proposta nell’interesse dell’imputato contro il provvedimento di custodia in carcere della Corte di assise di appello di Napoli, dopo la sentenza di condanna in secondo grado (la prima misura di custodia era cessata a seguito della assoluzione in primo grado), deve essere qualificata come “istanza di riesame” e non come “appello cautelare”. Da questo, conclude la sentenza, deriva l’irrilevanza, ai fini dell’ammissibilità, della mancanza dei motivi contestuali. L’ordinanza impugnata è stata così annullata senza rinvio, con trasmissione degli atti al Tribunale di Napoli per il giudizio di riesame.