Parmalat: Cassazione, inammissibile la richiesta di revisione della condanna di Matteo Arpe
"Si è in presenza di una riproposizione di materiale istruttorio già vagliato in precedenti procedimenti"
La Prima Sezione civile della Cassazione ha dichiarato inammissibile la richiesta di revisione proposta da Matteo Arpe, all'epoca direttore generale di Capitalia (e presidente del "Comitato crediti"), contro la condanna a 3 anni e 6 mesi disposta dalla Corte di appello di Bologna nel 2013 per concorso nei reati di bancarotta fraudolenta patrimoniale e impropria commessi nel contesto del tracollo del gruppo Parmalat. Nel 2019 la Corte di Appello di Ancona aveva già rigettato la prima richiesta di revisione per mancanza di nuove prove. Con la decisione depositata oggi (n. 32797), la Suprema corte, nel confermare la decisione di merito, ha affermato che "si è effettivamente in presenza di una riproposizione di materiale istruttorio già vagliato in occasione dei precedenti procedimenti, di merito e di revisione, di tal che la relativa prospettazione si configura come manifestamente infondata nella parte in cui afferma che tali documenti non sarebbero stati esaminati, e generica nella parte in cui essa non spiega per quale motivo il giudizio di irrilevanza già espresso non potrebbe essere condiviso".
Il manager era finito sotto accusa per il "prestito ponte" di 50mln di euro, erogato tra ottobre e novembre 2002, a Parmalat, in assenza peraltro di una formale richiesta da parte della Spa, e destinato a garantire la sopravvivenza delle società del "sottogruppo turismo", a cui era stato immediatamente girato da Parmalat con una operazione dal "chiaro tenore distrattivo". Arpe si era difeso sostenendo che la decisione era stata presa dal Comitato crediti mentre la sua lettera di approvazione sarebbe servita unicamente a "esternare" il parere della Capogruppo rispetto a una deliberazione già assunta.
Non decisive, del resto, erano già state ritenute le affermazioni secondo cui nel luglio del 2002 vi sarebbe stato un mutamento di governance che avrebbe rappresentato una «rivoluzione epocale» nel processo decisionale del gruppo bancario. Quanto invece alla consapevolezza dello stato di dissesto di Parmalat da parte di Arpe, la Cassazione afferma che ai fini della integrazione della condotta distrattiva, è sufficiente che l'agente "sia consapevole di contribuire a dare ai beni della società fallita una destinazione diversa da quella dovuta, privandola di risorse e di garanzie per i creditori". "Ciò che doveva ritenersi riscontrato, considerato che l'erogazione del finanziamento di 50 milioni a Parmalat era avvenuta in difetto di una formale richiesta dell'apparente beneficiario e mediante l'individuazione di una causale pretestuosa e palesemente non veritiera" (esigenze stagionali della tesoreria).