Parodia, la definizione “univoca” della Cassazione e l’inquadramento nel diritto nazionale e comunitario
Nell’ambito del diritto d’utore la ripresa dei contenuti protetti può giustificarsi nei limiti connaturati alla parodia e sempre che non rechi pregiudizio agli interessi del titolare dell’opera o del personaggio originale
In tema di diritto di autore la parodia costituisce un atto umoristico o canzonatorio che si caratterizza per evocare un’opera o anche un personaggio di fantasia e non richiede un proprio carattere originale diverso alla presenza di percettibili differenze rispetto all’opera o al personaggio che sono parodiati
Con l’ordinanza n. 38165, pubblicata il 30 dicembre 2022, la Corte Cassazione ha affrontato il tema della parodia dandone una definizione “univoca” ed in linea con quanto già sancito dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea. Nello specifico, per quanto attiene al panorama normativo, la Suprema Corte ha riconosciuto che, a livello nazionale, il fondamento della parodia risiede nell’art. 70 della L. 633/1941 che stabilisce che “Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all’utilizzazione economica dell’opera”.
La vicenda trae origine dalla pubblicità di una nota acqua minerale, andata in onda nel 2007. Nella pubblicità un attore vestito da Zorro diceva che già da bambino beveva l’acqua in questione mentre guardava le avventure di Zorro e che la stessa era la sua acqua preferita, proprio come Zorro era il suo beniamino.
Nonostante lo slogan positivo utilizzato, la società di produzione statunitense, titolare dei diritti di sfruttamento economico di Zorro e dei relativi marchi, denominativi e figurativi, citava in giudizio la società di distribuzione della pubblicità in questione, lamentando la violazione dei propri diritti, in virtù del fatto che quest’ultima aveva utilizzato una parodia del personaggio di Zorro per pubblicizzare il prodotto.
Il Tribunale di Roma, accogliendo le domande formulate dall’attrice, pronunciava una sentenza di condanna riconoscendo la violazione dei diritti di privativa da parte della convenuta. La pronuncia veniva impugnata dinanzi alla Corte d’Appello di Roma che riformava la sentenza di primo grado, rilevando che il personaggio di Zorro era diventato ormai di pubblico dominio.
La sentenza d’appello veniva, dunque, impugnata in Cassazione che cassava con rinvio escludendo che si possa parlare di una caduta in pubblico dominio della figura di Zorro e dei relativi diritti di sfruttamento del personaggio. Infatti, la Cassazione ha ritenuto che sebbene il personaggio sia stato creato nel 1919, l’autore è venuto a mancare solo nel 1951; pertanto, l’opera, all’epoca dei fatti, era ancora protetta dal diritto d’autore perché non erano ancora decorsi 70 anni dalla morte dell’autore.
Il giudizio veniva quindi riassunto dinanzi alla Corte d’appello di Roma che nel 2018 pronunciava una nuova sentenza con cui riteneva che, nel caso di specie, vi fosse un’imitazione servile del personaggio e, conseguentemente, condannava la società di produzione a risarcire il danno.
Più precisamente, la Corte d’Appello aveva rilevato che nell’ordinamento italiano non aveva trovato attuazione l’articolo 5, comma 3 Dir. 2001/29/CE che riservava agli Stati membri la facoltà di prevedere l’utilizzo di caricature e parodie come eccezioni al diritto di riproduzione e comunicazione al pubblico. In sostanza, dunque, il mancata recepimento della direttiva comportava che non potesse configurarsi la fattispecie della parodia perché in Italia non vi sarebbe alcuna norma che la prevede.
La sentenza così pronunciata è stata opposta con un secondo ricorso per Cassazione proposto dalla società di produzione che, con il primo motivo, denunciava la violazione e falsa applicazione degli art. 3, 21 e 33 Cost., della L. 633 del 1941 e degli artt. 4 e 5 Dir. 2001/29/CE.
Ebbene, questo primo motivo è stato accolto dalla Corte di Cassazione che, seguendo la tesi proposta dalla ricorrente, ha rilevato che, sebbene la Direttiva non sia stata recepita in Italia, la fattispecie della parodia era già parte integrante del diritto interno.
Viene osservato, infatti, che la parodia non è menzionata tra le fattispecie di elaborazioni creative e non è assimilabile a queste neppure in via analogica. Dunque, il giudice di appello avrebbe commesso un errore nel ritenere la parodia assimilabile ad una imitazione.
La Cassazione, aderendo a questa ricostruzione, ha precisato che la parodia di un’opera non è altro che una mera rielaborazione dell’opera stessa attuata, però, attraverso una imitazione caricaturale fatta con finalità satiriche, umoristiche, o comunque critiche. Ne deriva, dunque, che la parodia differisce dalla mera riproduzione in quanto la prima consiste in una reinterpretazione dell’opera e veicola un messaggio nuovo rispetto all’opera principale discostandosi dal personaggio originale; mentre la seconda si sviluppa manifesta come una vera e propria imitazione dell’opera originale, pur presentando delle piccole differenze di dettaglio.
Peraltro, sul punto si era già espressa la giurisprudenza di merito rilevando come la parodia implicasse “un ineliminabile carattere di parassitismo rispetto all’opera parodiata, nel senso che essa trova fondamento proprio nella preesistenza di un’opera di riferimento cui operare ripetuti rimandi in chiave deformante”.
Muovendo da tali assunti, dunque, la Cassazione, superando la sentenza opposta, sanciva l’impossibilità di ricondurre la parodia nella categoria delle elaborazioni creative di cui all’art. 4, L. 633 del 1941, perché integra un rovesciamento concettuale della creazione e non si pone in una relazione di continuità con l’opera originale. Ne deriva, quindi, che la parodia non potrà essere assimilata all’equazione creativa perché, se così fosse, si dovrebbe subordinare l’esercizio dei diritti di uso economico dell’opera parodistica al consenso dell’autore dell’opera parodiata che, com’è evidente, genererebbe un paradosso logico. Infatti, l’autore dell’opera parodiata potrebbe risentirsi dell’uso parodistico della propria opera arrivando a vietarlo ma, così facendo, violerebbe i diritti costituzionali della libera manifestazione del pensiero (art. 21 Cost.) e della creazione artistica (art. 33 Cost.).
Ciò posto la Cassazione concludeva nel senso di ricomprendere la parodia nell’alveo dell’articolo 70, comma 1, L. 633/1941 che consente la libera utilizzazione delle opere o di parti di esse, purché per uso di critica o di discussione e nei limiti giustificati da tali finalità senza che possa generarsi una concorrenza all’utilizzazione economica dell’opera. Questa ricostruzione, peraltro, trova conferma anche nell’articolo 5, comma 3, Dir. 2001/29/CE che accorda agli Stati membri la facoltà di disporre eccezioni o limitazioni ai diritti di riproduzione e comunicazione di opere al pubblico purché l’utilizzo avvenga a scopo di caricatura o parodia, come previsto dalla lettera k) del citato articolo. Dunque, se è vero che non esiste una norma nazionale che riproduce integralmente il contenuto del citato articolo 5, è altrettanto vero che l’articolo 70 della L. 633 consente di ricomprendere al suo interno anche la parodia e, pertanto, giustifica l’assenza di un intervento normativo di recepimento della direttiva.
Così facendo, dunque, la Cassazione sanciva il seguente principio di diritto: “in tema di diritto di autore la parodia costituisce un atto umoristico o canzonatorio che si caratterizza per evocare un’opera o anche un personaggio di fantasia e non richiede un proprio carattere originale diverso alla presenza di percettibili differenze rispetto all’opera o al personaggio che sono parodiati. In tema di diritto d’autore, la parodia deve rispettare un giusto equilibrio tra i diritti del soggetto che abbia titolo allo sfruttamento dell’opera, o del personaggio, e la libertà di espressione dell’autore della parodia stessa; In tal senso, la ripresa dei contenuti protetti può giustificarsi nei limiti connaturati al fine parodistico e sempre che la parodia non rechi pregiudizio agli interessi del titolare dell’opera o del personaggio originali, come accade quando entri in concorrenza con l’utilizzazione economica dei medesimi”.
______
*A cura di Lavinia Lipari, Avvocato, Senior Associate, Rödl & Partner