Penale

Patto quota lite, quando scatta la circonvenzione di incapaci aggravata

Lo ha chiarito la Cassazione con la sentenza n. 8022/2025 rigettando il ricorso di un legale condannato per il delitto di cui all’articolo 643 cod. pen. aggravato dall’esercizio della professione

di Francesco Machina Grifeo

Quando il compenso professionale pattuito, per le modalità previste e cioè la firma di un patto quota lite, può integrare il reato di circonvenzione di incapaci con l’aggravante di aver agito nell’esercizio della professione? A chiarirlo è la Cassazione con la sentenza n. 8022/2025 che ha rigettato il ricorso di un legale condannato per il delitto di cui all’articolo 643 cod. pen. aggravato appunto dall’abuso di prestazione d’opera e dall’ingente danno patrimoniale.

In tema di delitti contro il patrimonio, la II Sezione penale ha affermato che la sottoscrizione, da parte della persona offesa, di un “patto di quota lite” sproporzionato per eccesso rispetto ai valori tariffari di riferimento integra il reato di circonvenzione. Il risultato dell’approfittamento dello stato di infermità o di deficienza psichica della vittima (rilevante a norma dell’articolo 643 Cp) può consistere infatti anche nella stipulazione di un contratto a prestazioni corrispettive, sempre che tra queste sia rinvenibile uno squilibrio economico a danno dell’incapace. Del resto, spiega la Corte, il divieto del “patto di quota lite, si giustifica in funzione della disciplina del contenuto patrimoniale di un peculiare rapporto di opera intellettuale, per tutelare l’interesse del cliente e la dignità della professione forense”.

Nel caso specifico, l’avvocato condannato difendeva la vittima di un sinistro stradale sia in sede civile che penale. A seguito dell’incidente il cliente aveva riportato oltre a rilevanti danni fisici anche danni psichici di cui il legale era, come si è desunto da numerosi elementi, a conoscenza e di cui ha approfittato in vario modo, per esempio facendosi firmare una procura generale per incassare le somme via via versate dall’assicurazione oltre a stabilire come compenso una percentuale del 15% del risarcimento, pari a 167mila euro, somma del tutto sproporzionata rispetto all’attività svolta.

Per i giudici di legittimità correttamente la Corte di appello ha applicato il principio secondo il quale “costituisce deficienza psichica la minorata capacità psichica, con compromissione del potere di critica e indebolimento di quello volitivo, di intensità tale da agevolare la suggestionabilità della vittima e ridurne i poteri di difesa contro le altrui insidie”. Tale situazione di deficienza psichica tuttavia non deve necessariamente essere percepita immediatamente da chiunque, considerato che la relativa consapevolezza “è richiesta soltanto in capo all’autore del reato, che abbia instaurato con la predetta una conoscenza significativa (certamente ricorrente nel caso in esame)”.

E l’incidenza di tale deficienza, prosegue la decisione, “è stata certamente provata e riscontrata oltre ogni ragionevole dubbio, atteso l’evidente ed effettivo depauperamento delle consistenze patrimoniali della vittima e l’evidente ingiustizia del profitto realizzato dal ricorrente al quale la persona offesa si era affidata per la tutela delle proprie ragioni” e che non riceveva neppure le fatture relative ai compensi professionali trattenuti dall’importo liquidato dall’assicurazione.

Sono state dunque riscontrate le condizioni di reato di cui articolo 643 cod. pen., ovvero: la minorata condizione di autodeterminazione del soggetto passivo in ordine ai suoi interessi patrimoniali; l’induzione a compiere un atto che comporti effetti giuridici dannosi, che deve consistere in una apprezzabile attività di pressione morale e persuasione; l’abuso dello stato di vulnerabilità che si verifica quando l’agente, ben conscio della vulnerabilità del soggetto passivo, ne sfrutti la debolezza al fine di procurare a sé o ad altri un profitto.

In particolare, la Cassazione sottolinea che, per la sussistenza dell’elemento della induzione, non è richiesto l’uso di mezzi coattivi o di artifici e raggiri, ma è pur sempre necessaria una apprezzabile attività di pressione morale, di suggestione, di persuasione, “come dimostra la circostanza valorizzata dalla Corte di appello di avere gestito la posizione della persona offesa non solo mediante un accordo volto a realizzare assistenza professionale, ma anche ad ottenere un compenso ulteriore secondo modalità non consentite e non comprensibili dalla persona offesa, per il tramite di attività dallo stesso ricorrente stimolate”.

In definitiva, la Corte di appello ha correttamente applicato il principio di diritto secondo il quale in tema di circonvenzione di persone incapaci, debbono essere considerate, per verificare la sussistenza dell’elemento dell’induzione, non solo le condotte tenute dall’imputato al momento della commissione degli atti pregiudizievoli, ma anche tutto ciò che è accaduto successivamente, in quanto indice rivelatore di un antecedente approfittamento della minorata capacità psichica della persona offesa. Il giudizio di merito ha infatti dimostrato la ricorrenza dell’induzione ed ha correttamente applicato l’altro principio, già richiamato, per cui il risultato dell’approfittamento della deficienza psichica della vittima può consistere anche nella firma di un contratto a prestazioni corrispettive, qualora si realizzi uno squilibrio economico a danno dell’incapace.

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