Famiglia

Per l’assegno di divorzio contano gli utili dell’impresa, non il fatturato

Per la Cassazione non è corretto dare rilievo ai ricavi, perché si tratta di un dato non rappresentativo del reddito

di Giorgio Vaccaro

Il giudice del merito, nel determinare la misura dell’assegno divorzile, ha l’obbligo di tenere nel giusto conto i redditi effettivamente conseguiti dall’obbligato. Una pronuncia che ometta di considerare le dichiarazioni effettivamente depositate e conferisca rilievo ai ricavi di impresa, piuttosto che agli utili della stessa, «basando la decisione su di un dato economico non rappresentativo del reddito dell’obbligato», è da cassare, con rinvio alla medesima Corte d’appello in altra composizione, affinché decida tenendo presente tali precisazioni. Lo ha stabilito la Cassazione che, con l’ordinanza 15248 depositata il 12 maggio 2022, ha deciso sul ricorso formulato da un ex marito onerato dell’assegno divorzile, bocciando la pronuncia della Corte d’appello di Genova che, nel riconoscere il contributo divorzile, lo aveva quantificato senza approfondire con la dovuta attenzione l’effettività dei redditi dell’obbligato.

Correttamente, secondo la Cassazione, il ricorrente ha lamentato che il giudice territoriale aveva escluso il suo «depauperamento omettendo di esaminare documentazione afferente i suoi redditi». Così, «il giudice distrettuale avrebbe finito per conferire rilievo soltanto ad alcuni elementi che valevano a definire la situazione reddituale e patrimoniale dell’istante, quali il volume di affari dell’attività imprenditoriale svolta, il lascito ereditario del padre e la contribuzione della convivente», senza esaminarne altri. Ancora l’ex marito lamentava come «avrebbe errato la Corte d’appello nel ritenere che esso ricorrente avesse prodotto le dichiarazioni dei redditi sino al periodo di imposta dell’anno 2012, quando invece lo stesso aveva depositato, con la memoria di cui all’articolo 183 numero 3 Codice di procedura civile, denunce fiscali degli anni successivi, fino al 2015». Infine, il ricorrente affermava come, con violazione e falsa applicazione dell’articolo 5 della legge sul divorzio e dell’articolo 56 del Dpr 917/1986 (Testo unico delle imposte sui redditi), la Corte d’appello avesse «preso in considerazione come elemento reddituale il volume di affari dell’impresa individuale del ricorrente anziché il reddito effettivo della stessa».

La Cassazione ha ritenuto fondati tutti questi motivi di ricorso, rilevando che, tra gli atti del fascicolo, erano presenti le dichiarazioni dei redditi fino al 2015, che i giudici di secondo grado hanno omesso di considerare, e che la stessa Corte d’appello dà rilievo come elemento di valutazione dell’assegno «ai ricavi dell’impresa (...) piuttosto che agli utili della stessa, così basando la sua decisione su di un dato economico che non è rappresentativo del reddito dell’obbligato».

La Cassazione afferma in tal modo un principio cardine nella sempre delicatissima operazione di integrare l’interpretazione della norma, calandola poi nell’effettiva realtà delle parti in giudizio. La corretta lettura del reddito delle parti del processo della famiglia non è infatti senza conseguenze per gli equilibri quotidiani della vita post divorzio e occorre condurre l’esame prendendo in considerazione tutti gli elementi.

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