Società

Perché il nuovo codice della crisi e dell'insolvenza non convincerebbe A. Einstein

La crisi dovrebbe indurre un organo amministrativo ad una revisione dei propri programmi strategici e degli obiettivi di lungo termine, a prescindere dalla sostenibilità o meno del cash flow

di Emanuele D'Innella


Il Nuovo Codice della Crisi e dell'Insolvenza (D.Lgs. 14/2019, CCII) è ormai prossimo ad acquisire completa efficacia, rallentata solo dall'emergenza epidemiologica in atto, che ne ha posticipato l'integrale entrata in vigore a settembre 2021 (anziché ad agosto 2020).

Sarà dunque quello il momento cruciale, il vero banco di prova di una normativa che sarà chiamata al difficile compito di regolare la vita economica del nostro tessuto imprenditoriale: un settore complesso, estremamente sensibile ai cambiamenti e non sempre portatore di un'adeguata cultura aziendalistica.

Ma, come noto, importanti novità hanno già fatto ingresso nel corollario delle norme che disciplinano la vita dell'impresa. Il riferimento è, in particolare, agli artt. 375 e 377 del CCII (entrati in vigore lo scorso marzo 2019). Il primo, modificando l'art. 2086 c.c., introduce l'obbligo per l‘imprenditore, che operi in forma societaria o collettiva, di dotare l'impresa di un adeguato (n.b., alla natura e alle dimensioni dell'impresa) assetto organizzativo, amministrativo e contabile, anche (n.d.r, ma non esclusivamente) in funzione della rilevazione tempestiva della crisi e della perdita della continuità aziendale. Il secondo, diffonde tale precetto a tutte le forme societarie (con la modifica degli artt. 2257, 2380 bis, 2049 novies, e 2475 c.c.) chiarendo altresì che la gestione dell'impresa, da intendersi come l'insieme delle decisioni e delle strategie necessarie al raggiungimento dell'oggetto sociale, spetta esclusivamente all'organo amministrativo.

Al Legislatore va quindi senz'altro il plauso di aver avuto il buon senso di ascoltare, durante i lavori preparatori della Riforma, anche la prevalente dottrina aziendalistica, così riuscendo a scolpire nel nostro ordinamento un concetto tanto semplice quanto fondamentale: una sana ed efficiente gestione dell'impresa non può prescindere da un'adeguata organizzazione, volta non solo a rilevare tempestivamente uno stato di crisi, ma anche e soprattutto ad agevolare una consapevole gestione del rischio d'impresa, per sua natura insito nell'attività imprenditoriale.

Ciò che tuttavia questa pregevole Riforma non è riuscita a modificare, nonostante i presupposti che ne hanno ispirato la genesi, è la concezione stessa di crisi, ancora oggi identificata come un "male assoluto", un cancro, da debellare e combattere con ogni mezzo, anche privando un soggetto, quello imprenditoriale, della sua massima libertà d'espressione ed inventiva.

Perché in questo il CCII è chiaro. Rilevato lo stato di crisi, l'attività dell'organo amministrativo deve limitarsi ad una gestione conservativa del patrimonio aziendale, nell'interesse prioritario dei creditori (cfr. art. 4, lettera c)), escludendo dunque, ad esempio, la possibilità per lo stesso di assumere nuovi rischi per risollevare le sorti aziendali. Ogni violazione di tale dovere potrà dunque essere foriera di responsabilità per l'organo amministrativo.

Ma se la crisi continua ad essere percepita come un momento patologico della vita dell'impresa anziché, correttamente, come un suo naturale momento fisiologico, la rotta difficilmente potrà essere invertita.

La limitata definizione dello stato di crisi, che il CCII ha relegato esclusivamente all'insufficienza dei flussi di cassa prospettici a far fronte alle obbligazioni assunte, così come gli strumenti offerti per la sua rilevazione (i c.d. indici), non appaiono idonei ad interpretare un fenomeno così complesso (che può manifestarsi in modo innato e temporaneo in alcune attività, come quelle stagionali o in alcune fasi particolare della vita dell'impresa), a misurare variabili invece dotate di valenza strategica né, infine, a valutare, nel loro complesso, le performance aziendali ed i risultati attesi, che dipenderanno inevitabilmente dalla propensione al rischio dell'imprenditore.

Molti possono essere infatti i fattori, sia esogeni che endogeni, che possono pregiudicare un andamento corretto e profittevole della gestione. Si pensi, ad esempio, ai frequenti quanto repentini mutamenti dei contesti, non solo di mercato, ma anche sociali e culturali, oppure allo sviluppo di nuove tecnologie. Fattori, questi, che dovrebbero comunque indurre un organo amministrativo ad una revisione dei propri programmi strategici e degli obiettivi di lungo termine, a prescindere dalla sostenibilità o meno del rispettivo cash flow.

In un momento di crisi l'organo gestorio viene quindi privato della sua autonomia decisionale, dovendosi invece limitare a gestire il patrimonio aziendale nell'interesse dei creditori. Come se questo fosse l'unico interesse di cui è portatrice un'attività d'impresa.

Tralasciando l'ovvio interesse per i soci di veder adeguatamente remunerate le risorse apportate all'impresa, il CCII sembra dimenticare che questa è altresì portatrice di interessi tanto generali, quanto essenziali: lo sviluppo sostenibile del territorio, la salvaguardia di adeguati livelli occupazionali, il contributo allo sviluppo tecnologico dell'attività industriale e quello alla bilancia dei pagamenti dello Stato, solo per citarne alcuni.

Dovrebbe quindi esser lasciata la possibilità agli organi gestori, anche in un momento di crisi e prima di attingere alle risorse ed agli strumenti che lo stesso CCII riserva loro, di poter ripensare i rispettivi programmi ed obiettivi aziendali, anche stravolgendoli, di attuare nuove strategie di mercato, di fare ricorso a strumenti non tipizzati dalla normativa in questione (si pensi, ad esempio, alle operazioni straordinarie), senza porre alcun limite all'inventiva imprenditoriale se non quello, ormai scontato, che tali decisioni siano assunte con la necessaria diligenza e siano adeguatamente motivate e documentate.

Solo allora potrà essere invocato il principio d'ispirazione anglosassone della business judgment rule; diversamente, le responsabilità in capo all'organo amministrativo, nell'ipotesi in cui le sorti dell'impresa dovessero peggiorare, sarebbero evidenti oltre che indifendibili in qualunque aula giudiziaria.

Ingessare e limitare l'attività dell'organo gestorio in un momento così delicato, come quello di uno stato di crisi, vorrebbe dire disperdere il valore economico dell'azienda, da intendersi nella sua accezione più ampia, ad esclusiva e preminente tutela di interessi singoli, appunto, i creditori.

Né può essere ignorato il fatto che un momento di crisi, se correttamente percepito, può essere portatore di grandi progressi. Come sosteneva l'illustre scienziato A. Einstein, "La creatività nasce dall'angoscia, come il giorno nasce dalla notte oscura. È nella crisi che sorge l'inventiva, le scoperte e le grandi strategie. Chi supera la crisi supera sé stesso senza essere superato".

Se non riusciremo dunque tutti ad evolvere culturalmente (imprenditori, consulenti, organi di controllo, istituzioni e magistratura) modificando in primis la nostra percezione di crisi, per poi imparare a valutare e soppesare l'adeguatezza, la razionalità e la diligenza che hanno accompagnato (o dovrebbero aver accompagnato) il processo decisionale dell'organo amministrativo chiamato a fronteggiare uno stato di crisi, non faremo altro che, come già detto, disperdere il valore economico ed umano dell'intero nostro comparto imprenditoriale, ingolfando le aule giudiziarie con azioni di responsabilità ai limiti della temerarietà, così rinunciando definitivamente alle opportunità che, un momento di crisi, è comunque in grado di rilevare a chi saprà vedere.

Ecco perché tale riforma, non avrebbe convinto Einstein

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