Civile

Processo tributario, alla Consulta l’efficacia vincolante del giudicato penale assolutorio

L’ordinanza 1838/13/2025 della Cgt Roma (relatore Natalini) ha rinviato alla Consulta la questione di legittimità dell’articolo 21-bis del Dlgs 74/2000 introdotto dal decreto delegato sulle sanzioni

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di Francesco Machina Grifeo

La Corte di giustizia tributaria di primo grado del Tribunale di Roma, con l’ordinanza n. 1838/13/2025 (Relatore Natalini) ha rinviato alla Consulta la questione di legittimità dell’articolo 21-bis del Dlgs n. 74 del 2000 – introdotto dall’articolo 1 del Dlgs 87/2024 (il decreto delegato sulle sanzioni) - per violazione degli articoli 3, co. 1, 53, 24, co. 2, 97, 111, co. 1 e 2, della Costituzione. La disposizione, ed a spiegarlo è la Sezione tributaria della Cassazione (n. 1021/2025), impone di riconoscere efficacia vincolante nel processo tributario al giudicato penale assolutorio, purché abbia ad oggetto gli stessi fatti materiali oggetto di valutazione nel processo tributario e purché l’assoluzione sia avvenuta in base ad una delle due seguenti: «perché il fatto non sussiste» o «per non aver commesso il fatto».

La causa parte da due ricorsi, poi riuniti, contro un avviso di accertamento IVA e IRAP per l’anno 2013 nei confronti di alcuni soggetti ritenuti soci amministratori di fatto di una società cooperativa fulcro, secondo il Fisco, di un complesso sistema di frode fiscale e contributiva. Gli stessi soggetti sono stati poi coinvolti in un procedimento penale presso la Procura di Milano, conclusosi con sentenza irrevocabile di assoluzione della Corte d’Appello di Milano, fondata anche sull’inutilizzabilità di prove documentali acquisite in modo irregolare.

Per il Collegio giudicante, dunque, siccome la sentenza penale di assoluzione ha efficacia di giudicato con rifermento all’esistenza dei fatti posti a base delle riprese fiscali, la Corte, ai sensi e per gli effetti dell’articolo 21-bis Dlgs n. 74/2000, dovrebbe ritenere con riguardo “al presente giudizio tributario che tali fatti non sussisterebbero, per mancanza del relativo presupposto impositivo delle maggiori imposte accertate, con la conseguenza che, in accoglimento dei motivi di ricorso [...] dovrebbe senz’altro annullare l’avviso di accertamento in (immediata) applicazione dello ius superveniens”.

Prima della novella, ricorda l’ordinanza, la sentenza irrevocabile di assoluzione dal reato tributario, emessa con la formula “perché il fatto non sussiste”, non spiegava automaticamente efficacia di giudicato nel processo tributario, ma poteva essere presa in considerazione come possibile fonte di prova dal giudice tributario, il quale, nell’esercizio dei propri poteri di valutazione, doveva verificarne la rilevanza.

L’entrata in vigore, il 29 giugno 2024, dell’articolo 21-bis Dlgs n. 74/2000 (introdotto dall’articolo 1 del Dlgs 14 giugno 2024, n. 87), ha cambiato il quadro mutando “profondamente i rapporti tra processo tributario e processo penale”. E, come chiarito dalla Cassazione (n. 30814/2024), esso è applicabile anche ai casi in cui la sentenza è divenuta irrevocabile prima della operatività dell’articolo e, alla data della sua entrata in vigore, risulta ancora pendente il giudizio di Cassazione contro la sentenza tributaria d’appello che ha condannato il contribuente (come nel caso specifico).

L’ordinanza ricorda poi che alle Sezioni Unite civili è stata già rinviata l’efficacia dell’articolo 21-bis sia in relazione all’estensione anche al rapporto impositivo - o alla sola parte sanzionatoria - degli effetti della sentenza penale di assoluzione, sia in ordine all’applicabilità della nuova disciplina all’assoluzione ex articolo 530, comma 2, Cpp (n. 5714/2025).

Passando al merito, la Cgt segnala il contrasto con l’articolo 3, primo comma, della Costituzione, per il profilo di “intrinseca irragionevolezza ed irrazionalità dell’automatismo processuale” inidoneo ad assicurare il confronto dialettico tra le parti, in quanto operante ad esclusivo vantaggio del contribuente assolto in sede penale senza garantire alcuna possibilità di “resistenza” all’Amministrazione finanziaria. Sottolineando al contempo la limitazione della potestas iudicandi del giudice tributario, “deprivato di qualsivoglia possibilità valutativa in ordine ai (residuali) profili (esclusivamente) tributari emergenti, come possibile fonte di prova, dalla sentenza penale”.

Se poi si confrontano l’articolo 652 cod. proc. pen. e l’articolo 21-bis Dlgs n. 74/2000, prosegue l’ordinanza, “affiora in tutta evidenza la qui denunciata disparità di trattamento: mentre la sentenza penale di assoluzione, secondo la norma generale del codice di rito, può incidere nei giudizi civili o amministrativi solo se il danneggiato si sia costituito o sia stato posto in condizione di costituirsi parte civile, nel processo tributario, per effetto dell’art. 21-bis cit., ciò non avviene, con irragionevole disparità tra situazioni assolutamente comparabili, tali da violare, su un fronte correlato, anche l’art. 24 Cost. e … l’art. 111, commi primo e secondo, Cost.”

Il Collegio sottolinea poi il contrasto il principio di capacità contributiva, posto dall’articolo 53 Cost. profilandosi una situazione di disuguaglianza tributaria tra il contribuente assolto in sede penale il quale ottiene l’automatico annullamento giudiziale dell’avviso di accertamento o l’atto impo-esattivo quand’anche egli manifesti una propria capacità contributiva, mentre eguale sorte non è assicurata al contribuente che non sia mai stato attinto da procedimento penale, nonostante abbia commesso violazioni tributarie meno gravi.

Ma la norma lederebbe anche l’articolo 24 Cost., vale a dire il diritto di difesa dell’Amministrazione finanziaria in relazione all’interesse alla corretta riscossione delle imposte ed al recupero dell’evasione fiscale. Non solo, inibire completamente al giudice tributario l’esercizio di ogni potere valutativo-delibativo sulle statuizioni assolutorie, integra un vulnus alle funzioni al potere giudiziario (combinato disposto degli articoli 102, comma 1 e 111, co. 1, della Costituzione).

L’ordinanza insiste sull’“evidente violazione del principio della parità delle parti nel processo tributario”: mentre la difesa del contribuente può produrre la sentenza di assoluzione ed invocare gli effetti del giudicato favorevole, la parte pubblica non potrebbe produrre, ai medesimi effetti di giudicato volto a tutelare gli intessi erariali, la sentenza di condanna a carico del contribuente.

Una disparità di trattamento che non trova alcuna ragionevole giustificazione: “Il giudizio tributario, infatti – conclude la Corte -, non è più un mero giudizio di natura demolitoria, imperniato sulla legittimità e sulla sola correttezza motivazionale dell’atto impugnato, ma compendia ampi spazi di rilevanza del materiale probatorio circa la sussistenza del debito tributario e della sua entità”. L’amministrazione finanziaria, infatti, ove non operino le presunzioni proprie del diritto tributario sostanziale, “è tenuta a provare la sua pretesa sostanziale e non può disporre di poteri probatori più limitati rispetto alla controparte privata; detto altrimenti, non può subire le conseguenze di una produzione della parte privata agli effetti dell’art. 21-bis d.lgs. n. 74 del 2000”.

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