Prova del Dna e sei anni di giudizio per stabilire di chi è il cane smarrito
La Corte d’appello di Milano ha ritenuto necessario l’esame genetico su un cucciolo per decidere a chi affidarlo
La prova del Dna è stata decisiva per stabilire l’identità di un cane smarrito conteso tra due proprietari. È successo a Milano, dove la Corte d’appello, con la sentenza 2089 depositata il 18 agosto 2020, per la prima volta ha ritenuto necessaria la prova genetica su un cane per decidere a chi appartenesse.
La vicenda trae origine dal ritrovamento da parte di una signora di un cagnolino meticcio di un anno, smarrito e senza microchip, ma soltanto con il collare antipulci.
Il cucciolo era vivace, in buona salute e non presentava segni di maltrattamento. La donna lo ha preso con sé e lo ha portato al canile comunale, che però non è riuscito a identificare né il cane, né l’eventuale proprietario. La figlia della signora si è affezionata al cucciolo e ne ha chiesto l’affido provvisorio. Dopo dieci giorni di osservazione sanitaria, il cagnolino le è stato consegnato e dopo qualche mese l’affido è diventato definitivo. La giovane ha anche provveduto all’iscrizione del cane all’anagrafe canina, ignara che nel frattempo l’originario proprietario lo stesse cercando e avesse anche sporto denuncia di smarrimento.
Il proprietario ha quindi formulato istanza di accesso agli atti al canile e ha scoperto che il giorno dello smarrimento una signora aveva dichiarato di aver trovato un cane che corrispondeva alla descrizione del meticcio smarrito. Tuttavia, la figlia della signora ha rifiutato di consegnare il cane al legittimo proprietario, contestando che si trattasse dello stesso cucciolo, nonostante si fosse smarrito lo stesso giorno, l’uomo abitasse vicino al luogo del rinvenimento e avesse fornito una descrizione perfettamente corrispondente al cucciolo trovato per strada. La donna si era è rifiutata di far incontrare il cagnolino preso in affido e il signore che ne rivendicava la proprietà, anche soltanto per valutarne la reazione.
Da qui la richiesta della prova del Dna da parte dell’uomo per effettuare la comparazione genetica sul cucciolo.
I consulenti, in sede di accertamento tecnico preventivo, hanno estratto un campione di saliva da un giocattolo per cani a casa dell’uomo che diceva di essere il proprietario del cucciolo e poi effettuato l’analisi dei campioni, che non ha lasciato più dubbi.
Al centro della questione anche l’aspetto tecnico relativo al valore legale del microchip e dell’iscrizione all’anagrafe canina. La Corte d’appello, che ha confermato la sentenza del Tribunale di Milano, è chiara: la mancata iscrizione all’anagrafe canina può comportare soltanto sanzioni di natura amministrativa, ma non può incidere sulla proprietà del cane. A nulla sono valse le eccezioni della donna che ha invocato che non potesse trovare applicazione allo smarrimento del cagnolino l’articolo 929 del Codice civile che stabilisce che chi trova una cosa per strada ha l’obbligo di consegnarla al sindaco, il quale, trascorso un anno senza che nessuno la rivendichi, può definitivamente confermarne la proprietà in capo a chi l’ha trovata. Per i giudici infatti, nonostante l’evoluzione normativa sul tema e la crescente sensibilità sociale attorno agli animali di affezione, il cane, per quanto essere senziente e meritevole di attenzione, resta comunque - ai fini normativi - una cosa mobile, senza che ciò ne implichi un disvalore. Il proprietario che ne rivendichi la proprietà può dimostrarlo con ogni mezzo, compreso il test del Dna.
Così il cane torna “a casa” dopo un test genetico, due nomi diversi e, soprattutto, sei anni di giudizio.
Tribunale Taranto, sentenza 6 aprile 2020 n. 89
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