Querela per diffamazione, condannato per calunnia
Il Tribunale di Spoleto sanziona un ex banchiereper la denuncia al cronista
Nel dibattito sempre più acceso sulle querele temerarie - e con tre disegni di legge pendenti in Senato per la riforma della diffamazione - dai tribunali di merito spunta il rimedio più classico e quasi sempre ignorato dalle stesse vittime e dalle procure della repubblica: la contro-denuncia per calunnia.
A sperimentare gli effetti “di ritorno” della contraerea penale utilizzata sul delicato terreno del diritto di cronaca è un ex amministratore della Banca Popolare di Spoleto che aveva querelato un giornalista per una serie di articoli ritenuti diffamatori e si ritrova oggi - lui solo - condannato in primo grado per aver sviato la giustizia.
La sentenza del tribunale di Spoleto (n° 276/2023, giudice Elisabetta Massini, motivazione depositata il 16 marzo scorso) non fa altro che ribadire il concetto base della calunnia:incolpare di un reato qualcuno che si sa essere innocente è, questo sì, un reato contro l’amministrazione della giustizia, illecito che produce danni egualmente gravi - se non peggiori - della diffamazione.
Al centro della disputa, in particolare, un articolo apparso sul quotidiano Tuttoggi.info nel 2017 in cui il consigliere della banca umbra, commissariata nel 2013 dopo un’ispezione di Banca d’Italia, veniva indicato come il trait d’union che aveva presentato a Bps il fantomatico “serbo d’oro”, finanziere che prometteva un salvifico bond da 100 milioni «risultato essere una patacca». Secondo il sedicente diffamato, la circostanza riportata nell’articolo era del tutto falsa in quanto il cittadino serbo «fu presentato alla direzione generale da tutt’altra persona (che per riservatezza non occorre allo stato menzionare, sic)».
A cambiare direzione al processo, però, è stata l’accurata istruttoria dibattimentale in cui non uno ma ben tre testimoni presenti a quell’incontro hanno «graniticamente contraddetto» la ricostruzione pro domo sua del banchiere, specificando che oltre al serbo facevano compagnia al querelante anche altri imprenditori «che sembrano doversi ricondurre a coloro che dovevano realizzare l’opera per la quale l’imputato chiedeva finanziamenti».
Quanto basta, secondo la giudice Massini, per sottolineare la differenza che corre tra far valere un diritto quando si querela ritenendosi diffamati per il tono dell’articolo o del commento o, viceversa, quando si inventano o si manipolano fatti per disegnarsi vittima. Nel primo caso, l’eventuale proscioglimento del giornalista non genera alcuna conseguenza nè per il querelato nè per il querelante, ma se invece la parte offesa costruisce una presunta diffamazione con fatti falsi - e pertanto essendo perfettamente consapevole della innocenza del giornalista - «non vi è possibilità di interpretazioni diverse» scrive il magistrato «rispetto alla sussistenza del reato di calunnia». Peraltro, sottolinea l’estensore della sentenza, «la calunnia è un reato di pericolo e la sola circostanza che da essa possa derivare l’apertura di un’indagine» pur destinata ad archiviazione «è sufficiente a integrare il delitto».
Significative, nell’ambito del dibattito sulle querele temerarie, anche le disposizioni a corredo della condanna di Spoleto (che ovviamente non è ancora definitiva ed è impugnabile negli altri due gradi): 10 mila euro di provvisionale al giornalista (e definizione del quantum in separata sede civile), 5 mila euro ciascuno all’Ordine dei giornalisti umbro, al sindacato regionale e alla Federazione nazionale della stampa, oltre a 11.500 euro di spese legali per tutte le parti civili costituite.