Penale

Reato di tortura: due nuove norme e pene più pesanti se è coinvolto un pubblico ufficiale

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di Alberto Cisterna

La legge n. 110/2017 giunge alla sua approvazione dopo un nugolo di letture parlamentari e di polemiche da ricondurre, in gran parte, al dibattito che ha fatto seguito ad alcune pronunce della Corte europea dei diritti dell'uomo (Cedu) sui cosiddetti fatti di Genova e della Diaz in particolare (affaire Cestaro v. Italia, 7 aprile 2015 e, di recente, affaire Bartesaghi Gallo e altri contro Italia, 22 giugno 2017). Appare infatti significativo lo stesso titolo della legge 110/2017: «Introduzione del delitto di tortura nell'ordinamento italiano» e la funzione “riparatrice” cui le norme intendono assolvere rispetto ai rilievi della giurisdizione europea.

Reati di tortura e istigazione del pubblico ufficiale alla tortura - L'articolo 1 infatti prevede l'inserzione nel codice penale di due nuove norme incriminatrici relative ai reati di tortura e di istigazione del pubblico ufficiale alla tortura.

L'articolo 613-bis del Cp («Tortura») persegue l'intento di dare attuazione ai parametri indicati dalla Cedu nelle pronunce ora ricordate e stabilisce che «chiunque, con violenze o minacce gravi, ovvero agendo con crudeltà, cagiona acute sofferenze fisiche o un verificabile trauma psichico a una persona privata della libertà personale o affidata alla sua custodia, potestà, vigilanza, controllo, cura o assistenza, ovvero che si trovi in condizioni di minorata difesa, è punito con la pena della reclusione da quattro a dieci anni se il fatto è commesso mediante più condotte ovvero se comporta un trattamento inumano e degradante per la dignità della persona». Com'è dato a tutta prima constatare la nomografia appare approssimativa ed è prevedibile che l'applicazione del nuovo reato darà luogo a non poche incertezze interpretative.

I soggetti coinvolti nel delitto: attivi e passivi - Iniziamo dal soggetto attivo del reato. Non si è presenza di un delitto connotato da una particolare qualificazione giuridica della persona del reo. Quel «chiunque» rinvia ovviamente a una platea illimitata di soggetti. Anche se, a ben guardare, dalla descrizione del soggetto passivo della condotta ricaviamo indicazioni non univoche e non perfettamente coerenti con questo assunto.

Si deve trattare 1) di «una persona privata della libertà personale» ovvero 2) di una persona «affidata alla sua custodia, potestà, vigilanza, controllo, cura o assistenza» oppure ancora 3) «che si trovi in condizioni di minorata difesa».
L'ipotesi sub 2) – con la sua nozione di affidamento – rimanda chiaramente a uno status giuridicamente formalizzato in cui l'autore della tortura è tenuto a garantire la neutralità dello stato di soggezione della parte offesa. Ossia l'affidamento deve prevedere la protezione dell'incolumità fisica e psichica di colui il quale è sottoposto a una qualche forma di auctoritas o potestas altrui. In questa accezione l'articolo 613-bis del codice penale delinea ambiti di applicazione particolarmente dilatati. Scuole, ospedali, case di cura e riposo, famiglie, caserme, fabbriche, aziende agricole e quant'altro sono il luogo in cui possono commettersi prevaricazioni e violenze tali da assumere le connotazioni della vera e propria tortura. Ovviamente, e il tema in questa sede può essere solo accennato, si pongono delicate questioni in materia di concorso, apparente o reale, di questa fattispecie rispetto ad altri reati. Basti pensare ai delitti di maltrattamenti in famiglia (articolo 572 del Cp), di stalking (articolo 612-bis del Cp), di caporalato (articolo 603-bis del Cp), di abuso di mezzi di correzione (articolo 571 del Cp), solo per citare i casi più rilevanti i quali presentano elementi costitutivi contigui alla nuova fattispecie in esame.

Le ipotesi sub 1) e sub 3) richiamano, invece, presupposti dell'abuso di diversa consistenza in cui, cioè, la posizione di supremazia esercitata dal colpevole sulla parte offesa può derivare anche da mere condizioni di fatto: 1) «una persona privata della libertà personale» 3) «persona che si trovi in condizioni di minorata difesa». Nel primo caso rientrano sia l'arresto illegale (articolo 606 del Cp) che il sequestro di persona (articolo 605 del Cp) - in ordine alla cui distinzione si rinvia a Cassazione sezione V, 25 luglio 2017 n. 26885 - quanto la correlativa aggravante per i reati di rapina ed estorsione (articolo 628, comma 3, n.2 del Cp). Se, nel primo caso, la privazione della libertà personale deriva dall'uso di un potere legittimo (quello d'arresto) esercitato fuori dei casi consentiti dalla legge, negli altri, la privazione della libertà discende da una illecita coercizione personale che si specifica nelle modalità descritte dall'articolo 613-bis del Cp.
In questi casi le questioni inerenti il concorso o meno dei reati appaiono di più agevole soluzione stante l'assenza di più puntuali e sovrapponibili scenari normativi nel previgente ordinamento penale.

Alla definizione, invece, del caso di cui al punto 3) - «persona che si trovi in condizioni di minorata difesa» - concorre la giurisprudenza di legittimità che ha, da tempo, chiarito che «La valutazione della sussistenza della circostanza aggravante della minorata difesa per approfittamento delle condizioni del soggetto passivo va operata dal giudice valorizzando situazioni che, nel singolo caso, abbiano ridotto o comunque ostacolato la capacità di difesa della parte lesa, agevolando in concreto la commissione del reato. Fattispecie in tema di truffe commesse ai danni di giovani disoccupati nella quale la S.C. ha ritenuto non sufficiente il riferimento, operato dai giudici di merito, alla generale crisi economica ed occupazionale che investe il settore giovanile, ed alla generica aspirazione di un posto di lavoro» (Cassazione, sezione II, 11 maggio 2016 n. 28795, m. 26749601) ovvero «Le circostanze di persona che, ai sensi dell'articolo 61 n. 5 c.p. aggravano il reato quando l'agente ne approfitti possono consistere in uno stato di debolezza fisica o psichica in cui la vittima del reato si trovi per qualsiasi motivo; ne consegue che esse devono essere conosciute dall'agente e tali da ostacolare, in relazione alla situazione fattuale concretamente esistente, la reazione dell'Autorità pubblica o delle persone offese, agevolando la commissione del reato. Fattispecie, nella quale la Corte ha ritenuto la sussistenza dell'aggravante in relazione ad una serie di truffe, connesse all'abusivo esercizio delle professioni di psicologo, psicoterapeuta e medico psichiatra, poste in essere dall'imputato in danno dei pazienti» (Cassazione, sezione II, 7 gennaio 2015 n. 13933, m. 26329301). Non è del tutto evidente se questo plesso ermeneutico sia interamente e appropriatamente riferibile al nuovo delitto di tortura o se quest'ultimo, in realtà, non voglia prendere in esame una diversa menomazione della capacità di difesa fisica e psichica in relazione alle violenze e agli abusi subiti. Allo stato, a prima lettura, un'interpretazione uniforme pare preferibile anche alla luce dell'ampio spettro di situazioni “di diritto” prese in esame dal caso sub 2) e della necessità di assicurare un'unica ermeneusi di clausole lessicalmente equivalenti.

Le problematiche del concorso della nuova fattispecie con il delitto di lesioni e di omicidio sono, invece, espressamente regolate dagli ultimi commi dalla norma secondo cui «Se dai fatti di cui al primo comma deriva una lesione personale le pene di cui ai commi precedenti sono aumentate; se ne deriva una lesione personale grave sono aumentate di un terzo e se ne deriva una lesione personale gravissima sono aumentate della metà. Se dai fatti di cui al primo comma deriva la morte quale conseguenza non voluta, la pena è della reclusione di anni trenta. Se il colpevole cagiona volontariamente la morte, la pena è dell'ergastolo».

La condotta - La nuova fattispecie descrive la condotta di tortura valendosi di formule molto ampie ai limiti di tolleranza del principio di tipicità e, quindi, di legalità. L'agente deve cagionare «acute sofferenze fisiche o un verificabile trauma psichico» avvalendosi di «violenze o minacce gravi, ovvero agendo con crudeltà». Le nozioni di «acute sofferenze» e quella di «violenze o minacce gravi» o di «crudeltà» sono traslate nel corpo dell'articolo 613-bis del Cp direttamente dalla giurisprudenza della Cedu e, in particolare, dalle sentenze Cestaro e Bartesaghi Gallo. In quest'ultima, in particolare, si legge: «la Corte è convinta che gli atti di violenza commessi nei confronti dei ricorrenti abbiano provocato sofferenze fisiche e psicologiche “acute”, e che gli stessi siano di natura particolarmente grave e crudele (Cestaro, sopra citata, §§ 177-190)» (§ 119). La nozione di «acute sofferenze fisiche» consegna un margine all'apprezzamento giudiziario davvero notevole, posto che le stesse devono essere state cagionate con «violenze» (non si intende, invero, se il predicato di «gravi» si riferisca alle sole minacce o anche a queste modalità dell'azione di tortura), per cui pare evidente che la misurazione della loro gravità debba avvenire innanzitutto secondo il parametro di intensità previsto per le lesioni ex articoli 582 e seguenti del Cp.

Concluso questo primo passaggio il giudice dovrebbe accertare se le violenze abbiano o meno prodotto «acute sofferenze fisiche» alla vittima. La nozione di «sofferenze», infatti, è strettamente collegata alle modalità della violenza, ben potendo darsi casi di lesioni lievi capaci tuttavia di indurre grande sofferenza nella parte offesa (ad esempio una serie di microscosse elettriche o di micro tagli in parti ad alta concentrazione di nocicettori).
Molto è rimesso alla narrazione della parte offesa e all'esito degli inevitabili accertamenti medico-legali sulla correlazione tra violenze e sofferenze. In questo senso si dirige anche il secondo degli eventi lesivi descritti dalla norma («un verificabile trauma psichico») il quale rimanda, ancor di più, a riscontri specialistici circa la sussistenza del shock e per la dimostrazione della correlazione causale, questa volta, con le violenze o con le minacce gravi. Dovrebbe essere esclusa la sussistenza del reato in caso di traumi psichici verificati e accertati che derivino da minacce (o anche violenze?) non gravi. È una conclusione abbastanza discutibile, posto che l'incidenza dell'azione violenta o minacciosa (già plurima per espressa previsione normativa) sulla psiche della vittima ben può dipendere da evidenti condizioni di impressionabilità, timore, suggestionabilità che possono essere anche attivate da reiterate minacce non gravi (articolo 612, comma 1, del Cp).

Molto potrebbe dipendere dalle circostanze di tempo (ad esempio in piena notte) o di luogo (una cella o uno stanzino) o dal numero degli agenti da cui la condotta viene posta in essere, per cui il predicato di gravità appare ingiustificato se letto, come dovrebbe essere, alla strega dei parametri di cui all'articolo 612, comma 2, del Cp («La gravità della minaccia va accertata avendo riguardo, in particolare, al tenore delle eventuali espressioni verbali ed al contesto nel quale esse si collocano, onde verificare se, ed in quale grado, la condotta minatoria abbia ingenerato timore o turbamento nella persona offesa. Nella specie, la S.C. ha ritenuto che non integrassero l'ipotesi di minaccia grave frasi quali “ti ammazzo, ti sgozzo, ti spacco la faccia, ti sparo in testa” e simili, pronunciate dall'imputato all'interno di un ospedale mentre versava in un forte stato di turbamento emotivo dovuto alla presenza di sintomi che in passato avevano preceduto un infarto» così Cassazione sezione VI, 16 giugno 2015 n. 35593, m. 26434101).

Ultima modalità della condotta di tortura, alternativa alle precedenti, è quella dell'avere agito con «crudeltà». Sul punto occorre necessariamente richiamarsi all'interpretazione accordata dalle Sezioni unite alla nozione di «crudeltà» laddove hanno stabilito che «la circostanza aggravante dell'avere agito con crudeltà, di cui all'articolo 61, primo comma, n. 4, del Cp, è di natura soggettiva ed è caratterizzata da una condotta eccedente rispetto alla normalità causale, che determina sofferenze aggiuntive ed esprime un atteggiamento interiore specialmente riprovevole. Nell'affermare il principio, la S.C. ha precisato che la sussistenza di tale atteggiamento interiore deve essere accertata alla stregua delle modalità della condotta e di tutte le circostanze del caso concreto, comprese quelle afferenti alle note impulsive del dolo» (Cassazione, sezioni Unite, 23 giugno 2016 n. 40516, m. 26762901 e si veda anche la Relazione dell'Ufficio del massimario sul contrasto n. 56/16 del 4 novembre 2016, estensore Pazienza).

L'aggravante - Il comma successivo dell'articolo 613-bis del codice penale stabilisce che «Se i fatti di cui al primo comma sono commessi da un pubblico ufficiale o da un incaricato di un pubblico servizio, con abuso dei poteri o in violazione dei doveri inerenti alla funzione o al servizio, la pena è della reclusione da cinque a dodici anni».

Il riferimento all'«abuso dei poteri» e alla «violazione dei doveri inerenti alla funzione o al servizio» è particolarmente rilevante giacché circoscrive l'ipotesi aggravata di tortura ai soli casi in cui l'agente si trovi a operare nelle qualità che gli sono assegnate. È un reato proprio o, per così dire, funzionale che chiaramente prende in esame tipologie di fatti che si verificano in contesti assimilabili a quelli di Genova. Il dato è reso ancora più esplicito dal penultimo capoverso dell'articolo in commento secondo cui «il comma precedente non si applica nel caso di sofferenze risultanti unicamente dall'esecuzione di legittime misure privative o limitative di diritti». La scriminante di natura funzionale è ovviamente circoscritta alle misure esecutive di provvedimenti legittimi. La questione è tanto rilevante quanto delicata poiché sospinge il giudice verso una verifica della legittimità degli ordini di servizio che appare particolarmente complesso ricostruire ex post, soprattutto sul versante della necessità e proporzionalità. Si tenga anche conto che, spesso, l'intervento coercitivo delle forze di polizia è disposto in contingenze convulse e disordinate e secondo metodologie non sempre univoche di consegna delle disposizioni per via gerarchica (si pensi alle polemiche recenti sull'ordine di carica nel corso delle operazioni di sgombero dell'immobile di via Curtatone a Roma).

L'istigazione alla tortura - L'articolo 613-ter del codice penale («Istigazione del pubblico ufficiale a commettere tortura») – a ben vedere – dilata le problematiche da ultimo citate, giacché pone in evidenza la delicata delimitazione tra l'attività di coazione legittima che sfocia in scontri di piazza anche duri e violenti e l'istigazione alla tortura vera e propria.

La fattispecie di nuovo conio si limita a stabilire che «il pubblico ufficiale o l'incaricato di un pubblico servizio il quale, nell'esercizio delle funzioni o del servizio, istiga in modo concretamente idoneo altro pubblico ufficiale o altro incaricato di un pubblico servizio a commettere il delitto di tortura, se l'istigazione non è accolta ovvero se l'istigazione è accolta ma il delitto non è commesso, è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni». Appare abbastanza evidente, sebbene il tenore letterale della disposizione non lo preveda, che si intendano sanzionare quelle attività di direzione delle operazioni di polizia (soprattutto, ma non solo) di piazza che comportino la consumazione delle condotte di cui all'articolo 613-bis del Cp. È vero che può darsi un'istigazione anche di tipo “orizzontale” tra gli operanti, ma in genere (si veda il citato caso dello sgombero degli immigrati di via Curtatone a Roma) le disposizioni sono impartite dal responsabile del servizio d'ordine pubblico. Tanto per restare nel perimetro comprensibile dei fatti della Diaz. Anche questa volta il sindacato giurisdizionale si trova a dover fare i conti con una ricostruzione particolarmente complessa della vicenda. Le fasi convulse e disordinate dell'azione di ordine pubblico non si prestano, certo, alle minute misurazioni che la disposizione impone. L'ordine impartito dal superiore gerarchico può certo assumere i connotati dell'istigazione alla tortura (ad esempio nel caso controverso: «spezzategli il braccio»), ma certo potrebbe anche conservare i connotati dell'ordine legittimo in presenza di condotte oppositive particolarmente violente e aggressive che mettano in serio pericolo l'incolumità pubblica o degli operanti (si veda scriminati ex articoli 51, 52 e 53 del Cp).

In questo caso, deve ritenersi, soccorra in sovrappiù la medesima scriminante di cui al penultimo capoverso dell'articolo 613-bis del Cp sopra menzionata («il comma precedente non si applica nel caso di sofferenze risultanti unicamente dall'esecuzione di legittime misure privative o limitative di diritti»).

Un contributo significativo all'interpretazione dell'articolo 613-ter del Cp potrebbe comunque provenire dalla molto più ampia previsione dell'articolo 16 della citata Convenzione Onu del 1984 secondo cui «ogni Stato Parte si impegna a proibire in ogni territorio sotto la sua giurisdizione altri atti costitutivi di pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti che non siano atti di tortura quale definita all'articolo 1, qualora siano compiuti da un funzionario pubblico o da qualsiasi altra persona che agisce a titolo ufficiale, o sotto sua istigazione, oppure con il suo consenso espresso o tacito». Una distinzione, questa, che la legge in esame non ha recepito e che la Convenzione aveva dettato proprio al fine di inibire in qualunque modo azioni pubbliche che, pur non varcando la soglia della tortura, si concretassero in «trattamenti crudeli, inumani o degradanti» indipendentemente dal perimetro delle sanzioni detentive o carcerarie.

Legge 14 luglio 2017 n. 110

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